Piersanti, sessant’anni in versi: «Sono sempre stato fedele alla poesia»
Nel volume “L’isola tra le selve” la poesia è si intreccia alla vita, la natura è protagonista, la Storia irrompe nei versi, la voce lirica si fa forma di resistenza

Nel volume L’isola tra le selve. Poesie scelte 1967-2024 (prefazione e cura di Massimo Raffaeli, marcos y marcos, pagine 240, euro 19,00) il lettore ha di fronte a sé un’antologia della migliore poesia di Umberto Piersanti, che copre un arco cronologico abbondantemente superiore al mezzo secolo. Nato a Urbino nel 1941, profondamente legato alla sua terra, Piersanti - che è anche narratore e saggista - rappresenta senza dubbio una delle voci più autorevoli della poesia italiana contemporanea. Lontano da scuole, gruppi e conventicole, con i suoi versi ha tracciato, nel corso del tempo, un proprio personalissimo percorso, molto apprezzato da critica e pubblico. Lo abbiamo incontrato a Civitanova Marche, dove vive con la moglie Annie e il figlio Jacopo, per provare a tracciare insieme un bilancio della sua lunga e prestigiosa carriera letteraria.
Piersanti, “L’isola tra le selve” è una sintesi del suo lungo cursus poetico. Quale consuntivo si sente di abbozzare di questi quasi 60 anni di poesia?
«Credo di essere stato fedele alla poesia, ai tempi che l’hanno improntata e hanno improntato la mia vita. Tra poesia e vita c’è sempre stato in me uno stretto intreccio. Non ho mai seguito mode più o meno passeggere. Naturalmente nel tempo anche la profondità dello sguardo e la dimensione stilistica hanno avuto dei mutamenti».
Uno dei temi centrali nel suo lavoro letterario è da sempre la natura, la sua terra, il paesaggio. Perché sono cose così importanti per lei?
«Tutti possono parlare di un albero. Per me la natura non è uno sfondo alle vicende, ma è la protagonista del quadro. Fin da piccolo ho avuto un interesse preciso per tutto ciò che mi circondava: la casa nel fosso dei miei avi materni era immersa tra selve e greppi. La natura ho bisogno di viverla e di entrare nei suoi singoli elementi: buttare la testa dentro l’erba, nominare fiori o arbusti come il favagello e lo scotano, stupirsi di fronte ad una viola nata nei giorni dopo Natale».
Qual è il suo mondo?
«Per ognuno di noi c’è un luogo dove ha aperto gli occhi e scoperto il mondo. Sono nato a Urbino, ma ho vissuto intensamente la casa nel fosso, sotto le Cesane. Queste ultime sono molto belle, ma sicuramente ci sono luoghi ancora più belli. Nelle Cesane, però, ho guardato le stelle e “parato” le pecore. Le Cesane sono la mia patria poetica, come le Langhe per Pavese o la Maremma per Carducci. Sono nato ad Urbino: il rapporto tra paesaggio e città, tra polis e cosmo, è ancora molto visibile nella Città Ducale. Il paesaggio è quello perfetto e armonioso dei quadri di Raffaello. Nel paesaggio ho sempre cercato l’armonia, ma non mancano nubi oscure e fossi irti di spini».
Un altro tema della sua opera è la Storia collettiva, spesso in relazione alle vicende individuali e familiari. In che modo la Storia entra nei suoi versi?
«La prima immagine che ho davanti agli occhi è data dai carri armati dell’ottava armata britannica che scendono dalle Cesane, aggirano Urbino, andando a scontrarsi sugli avamposti tedeschi della Linea Gotica. Ho visto una delle mie sorelle prendere le cioccolate dai soldati dai larghi elmi. I miei mi hanno raccontato delle violenze e degli stupri perpetrati dai reparti coloniali dell’esercito inglese, ho ascoltato dalle voci della mia famiglia il racconto delle torture inflitte ai prigionieri dalle camicie nere alla pineta sopra Urbino. Ho ancora nelle mie orecchie il rombo degli aeroplani che vanno a bombardare. Raccontando la mia vita ho sempre avuto lo sguardo sulle vicende collettive che si svolgevano attorno. Del mondo contadino ho raccontato riti e ritmi, leggende tenere o terrificanti. Se, una volta passati, i ricordi sono quasi la stessa cosa dei sogni, quel mondo che raccontavo è stato trasformato e, talora, è divenuto mito. Ho poi attraversato le lotte del ’68: ero un protagonista del movimento, ma isolato e distante per le mie posizioni contro la violenza da qualunque parte venisse esercitata. E poi il bisogno di fuga, il bisogno di rifugiarmi solo con una compagna dentro uno spazio separato, un borgo, una chiesa, una rocca».
Altro motivo importante è la paternità e il rapporto con suo figlio Jacopo.
«Jacopo è colpito da una gravissima forma di autismo, il disturbo pervasivo dello sviluppo. Significa che il male progredisce con il tempo, le cure possono attenuare, ma non fermare, questo crudele percorso. Fino a quattro anni e mezzo Jacopo era un bambino vivace e attento, conosceva colori come il fucsia e sapeva ripetere la storia di Sigfrido che gli avevo raccontato. Spesso ho fatto di Jacopo un personaggio mitico, da accostare ai miei avi dei campi, come Madio e la Fenisa. Negli ultimi anni, però, la dimensione reale si è imposta, e Jacopo è diventato un personaggio più concreto e quotidiano. All’inizio del suo male non volevo parlare di mio figlio, ma un poeta deve parlare di ciò che ha dentro e niente era più dentro di me di Jacopo».
Si può affermare che la dimensione autobiografica sia una sorta di filo rosso che unisce le varie stagioni della sua poesia?
«Sicuramente. Compilando e rileggendo le varie sezioni di questo libro, ho attraversato le vicende della mia vita, avvertendo il tutto anche con un certo tremore. Ripeto però: la mia vita si è intrecciata a quella degli altri, alla cronaca e alla storia che mi passava accanto».
Fabio Pusterla la definisce «lirico in un’epoca che la lirica nega o profondamente modifica, lirico nonostante tutto». È d’accordo?
«Sono perfettamente d’accordo. Ho sempre vissuto la poesia come contemplazione e canto. Sono sempre stato lontano da una poesia che abbia fatto della dimensione linguistica e stilistica il suo fondamento. Lirico può essere anche lo sguardo verso situazioni e vicende che trascendono l’io. La mia dimensione lirica, essendo però aperta ad un mondo non solo interiore, si incontra spesso con toni narrativi e persino epici. Il canto lirico è un’esigenza profonda, una vocazione più che una scelta».
Quali sono i poeti su cui si è maggiormente formato?
«Mi sono formato molto sui classici latini e sui poeti italiani del tardo '800 e del '900. Naturalmente ho letto anche autori stranieri. Di Leopardi ho tentato di prendere la tensione cosmica e il canto spiegato, lirico, drammatico e riflessivo nello stesso tempo. Di Carducci ho avvertito la virile malinconia e le immagini precise scolpite nella sua poesia. Pascoli è l’autore che più mi ha coinvolto: la capacità del suo sguardo di penetrare tra erbe e fiori, la tenerezza dei ricordi, la religione familiare, il senso del tempo. In una poesia come L'aquilone Pascoli anticipa la memoria involontaria di Proust. Di Luzi ho ammirato profondamente la parte centrale della sua opera, in particolare nella raccolta Dal fondo delle campagne, quel suo modo intenso e scabro di avvicinarsi alle persone e alle cose, di raccontare il mondo con religioso stupore e umana cordialità».
Lei ha insegnato per molti anni, prima nei licei e poi all'università. Come si possono trasmettere ai ragazzi il piacere e il gusto della poesia?
«Bisogna evitare di mortificare la poesia attraverso discorsi eccessivi su metrica e stile e, dall’altra parte, non bisogna affogarla nel sentimentalismo e nel patetico. Insegnare la poesia è più un’arte che una disciplina. È necessario trovare una giusta compresenza di tutti gli elementi e sapere trasmettere empatia. Aiuta anche il saperla leggere bene e con partecipazione».
Qual è lo spazio della poesia nella società di oggi?
«Nella società contemporanea la poesia è una forma di resistenza al trionfo della civiltà dello spettacolo. Siamo immersi in un profluvio di parole e di immagini effimere. Recital, incontri, frequentazione della poesia sono una forma tenace di resistenza all’inautenticità che ci circonda».
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