domenica 27 ottobre 2019
Il gigantesco monolito noto come “Ayers Rock”, fra i simboli del continente australiano, è stato chiuso al turismo dal governo ed è tornato a essere esclusivamente il luogo sacro del popolo Anangu
Sammy Wilson, presidente del Central Land Council e suo nipote Jacob di fronte a Uluru il primo giorno del divieto ai turisti

Sammy Wilson, presidente del Central Land Council e suo nipote Jacob di fronte a Uluru il primo giorno del divieto ai turisti

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Ipopoli indigeni del pianeta esprimono culture molto diverse, ma hanno in comune un particolare rapporto col territorio e con l’ambiente, un rapporto che ha come obiettivo la conservazione. Si considerano parte della natura (la Madre Terra), la cui distruzione minaccerebbe la loro stessa sopravvivenza. Il territorio non è soltanto la base della loro vita fisica, ma anche di quella spirituale. Nelle culture indigene le sorgenti, i fiumi, i luoghi di sepoltura e le montagne rivestono un ruolo centrale. Questi luoghi sono spesso al centro delle controversie che oppongono i popoli in questione alle autorità statali. Purtroppo sono rare le dispute che si concludono in modo favorevole per le comunità autoctone. Uno di questi successi sporadici è quello che vede protagonista Uluru (da noi meglio nota come Ayers Rock), il gigantesco monolito che sorge nel deserto australiano. L’icona naturale, la più celebre dell’isola, compare in migliaia di foto, manifesti e inquadrature cinematografiche. Ma la cosa più importante, anche se meno nota in termini mediatici, è il significato religioso che Uluru riveste per gli Anangu, il popolo aborigeno che abita la zona da millenni. Il 25 ottobre il sito è stato chiuso definitivamente al turismo e restituito agli Aborigeni.

Da Ayers Rock a Uluru. Nel 1872 l’esploratore britannico Ernest Giles fu il primo europeo ad avvistarlo, ma lo vide da lontano senza potersi avvicinare a causa del lago Amadeus, che lui stesso aveva scoperto. L’anno dopo William Gosse, un esploratore inglese emigrato in Australia, lo battezzò Ayers Rock in onore di Henry Ayers, Primo Ministro della colonia britannica. Il parco nazionale istituito nel 1950 segnò l’inizio dello sfruttamento turistico. Successivamente il parco fu ampliato includendo il territorio che apparteneva a una riserva aborigena e prese il nome di Ayers Rock-Mount Olga. Il secondo nome indica un gruppo di antiche formazioni rocciose situato a circa 30 km da Ayers Rock. Questo rimase il nome ufficiale fino al 1993, quando venne ufficializzata la nuo- va denominazione bilingue: Ayers Rock-Mount Olga e Uluru-Kata Tjuta. Il popolo anangu, coinvolto nella gestione del parco, cominciò a reclamare che Uluru venisse chiuso ai turisti. Il divieto che auspicava non si basava soltanto sulle motivazioni religiose suddette, che erano comunque le principali, ma anche sui pericoli che i turisti correvano scalando il massiccio, tanto è vero che alcuni erano morti. Oltre a questo, i campeggi, i picnic e le scorribande stavano generando un accumulo di rifiuti dal forte impatto ecologico.

Nel 1983 il premier laburista Robert Hawke promise che avrebbe restituito la proprietà di Uluru agli Anangu. Due anni dopo mantenne la promessa, ma il governo australiano impose che i turisti potessero continuare a scalare il massiccio per 99 anni, durante i quali gli Aborigeni lo avrebbero gestito insieme al National Parks and Wildlife (l’ente governativo dei parchi nazionali). Col tempo, però, la questione ha preso un’altra piega. Il piano del parco Uluru-Kata Tjuta per il decennio 2010-2020 prevedeva che il sito sarebbe stato chiuso se si fossero verificate varie condizioni, prima fra tutte una percentuale di scalatori inferiore al 20%. Nel 2013 l’edizione australiana del Guardian riportò che il limite era già stato raggiunto. Nel novembre scorso, quindi, gli aborigeni che collaborano alla gestione del parco unilateralmente che il sito sarebbe stato definitivamente chiuso al turismo il 25 ottobre 2019. Nei mesi successivi, con l’avvicinarsi della scadenza, il parco nazionale è stato letteralmente invaso da decine di migliaia di turisti che volevano scalare il massiccio.

Pareri contrastanti. La decisione di chiudere Uluru al turismo ha avuto ampio rilievo mediatico e non sono mancate le polemiche. La scrittrice aborigena Celeste Liddle, militante femminista, ha sottolineato polemicamente che il forte incremento turistico degli ultimi mesi era soltanto un modo per riaffermare che Uluru « appartiene ai bianchi » . Pauline Hanson, leader del partito populista One Nation, aveva espresso una forte opposizione alla chiusura, ma nelle ultime settimane ha fatto marcia indietro, dichiarandosi favorevole per motivi di sicurezza. La questione, comunque, è più articolata di quanto sembra. Una meta turistica così famosa non può non avere delle implicazioni economiche. Secondo gli ultimi dati, il parco ha attratto ogni anno 367.000 visitatori, fornendo alle casse federali oltre 400 milioni di dollari. Un successo enorme, considerata la sua posizione remota: la città più vicina, Alice Springs, dista 450 kilometri. Nonostante questo, le opportunità di lavoro per gli Aborigeni erano rimaste scarse, perché soltanto pochi di loro erano stati assunti dal vicino Ayers Rock Resort.

La cerimonia. Durante gli ultimi giorni l’afflusso di turisti ha superato ogni previsione. Poche ore prima della scadenza una coda di oltre mille persone aveva intrapreso la scalata. I ranger del parco erano preoccupati per il forte vento, che poi fortunatamente si è calmato. La chiusura definitiva è avvenuta alle 16 di venerdì (ora locale, equivalente alle 20 di giovedì per noi). Scene di giubilo e di gioia ovunque, mentre gli anziani aborigeni celebravano una cerimonia di ringraziamento. L’antico monolite del deserto rosso non è più un’icona per le cartoline, ma è tornato a essere il luogo sacro di una delle culture più antiche del pianeta.

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