venerdì 19 marzo 2021
Gianmarco, terzo dei 4 figli del «fuoriclasse» Ugo, racconta la sua vita di attore: «Solo hobby, per colpa di un Paese che non ha rispetto degli artisti». Su Sky è Spalletti in “Speravo de morì prima”
Ugo Tognazzi con la moglie Franca Bettoja e i figli Ricky, Thomas Maria Sole e Gianmarco

Ugo Tognazzi con la moglie Franca Bettoja e i figli Ricky, Thomas Maria Sole e Gianmarco

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«Amo gli sport e preferisco quelli di squadra a quelli individuali... E il cinema è squadra per definizione». Così scrive Gianmarco Tognazzi in Ugo. La vita gli amori e gli scherzi di un papà di salvataggio ( Rai Libri). Di tutti gli sport, in cima alle sue preferenze c’è il calcio, che papà Ugo metteva sullo stesso piano con il pugilato, come dimostra il suo mitico personaggio da ring, Enea Guarnacci, piccolo manager maneggione del povero pugile suonato Artemio Altidori ( Vittorio Gassman) ne La nobile arte – episodio del film I mostri di Dino Risi – . «Papà il giorno in cui sposò mia madre, Franca Bettoja, il tutto avvenne con la televisione accanto, perché esattamente in quella data delle nozze c’era un match di pugilato che la Rai dava in diretta».

Vizi e virtù di quello che Gianmarco, il terzo dei quattro figli di Ugo (gli altri sono i tre registi: Ricky, Thomas e Maria Sole) definisce «un fuoriclasse artistico ma anche umanamente. Noi, abbiamo avuto il privilegio di averlo come padre». I Tognazzi, per affinità elettive e calcistiche sono un po’ i “Maldini del cinema”. «L’accostamento mi piace e sul piano culturale e sportivo va nel segno della continuità. L’errore sta nel confronto, tutto italiano, riguardo ai figli d’arte che sono visti o come un peccato di raccomandazione o come necessità di incrementare il talento e di superamento del capostipite. Ugo Tognazzi e Paolo Maldini sono unici, noi figli siamo semplicemente la continuità».

Tradizione di famiglia voleva la prole di Ugo sul set appena in grado di camminare da soli. Così, Gianmarco già a sei anni, nel 1974, appare in Non toccare la donna bianca di Marco Ferreri, in Romanzo popolare di Mario Monicelli e ne Il petomane di Pasquale Festa Campanile. Esordio vero e proprio da attore a 17 anni, «di nascosto da mio padre e in quanto minorenne accompagnato da mia madre» per girare Vacanze in America di Carlo Vanzina. Più o meno l’età in cui Francesco Totti debuttava in Serie A (a 16 anni, il 28 marzo 1993 in Roma-Brescia) del quale nella serie tv Speravo de morì prima – in onda da oggi su Sky Atlantic e Now Tv – Gianmarco Tognazzi veste i panni, anzi la tuta, dell’ex allenatore del n. “10” giallorosso, Luciano Spalletti. Nell’ambiente del calcio Spalletti è considerato “mister antipatia”.

«A me invece sta simpatico, da sempre. E mi rivedo anche nella sua dialettica fiume e mi piace anche quando ripete il suo mantra dei “giusti comportamenti”, su cui si è fatta dell’ironia spicciola. Condivido la filosofia di gioco di Spalletti e comprendo anche il disagio che ha provato nel suo secondo mandato alla Roma. Mentre nel primo aveva investito tutto sul carisma e la verve di Totti, la seconda volta, con il Capitano ormai a fine carriera, era obbligato a puntare di più sul gruppo a scapito del singolo che però in questo caso è un’icona, e il popolo romanista non ha digerito il fatto che relegasse in panchina il loro idolo, intoccabile».

Due uomini contro che, nella miniserie-tv, con le splendide interpretazioni di Tognazzi (Spalletti) e di Pietro Castellitto ( Totti) vengono fuori nella loro essenza umana. «Spalletti è il mister antagonista, ma leale, di quel campione anche di generosità che è sempre stato, in campo e fuori, Francesco Totti. Io e Pietro non siamo i loro “sosia”, come avrebbero desiderato invece certi commentatori social, ai quali è concesso il potere, anzi l’abuso, dell’opinionismo becero che non conosce più il pudore, codice imprescindibile anche del peggior chiacchiericcio da bar sport degli anni ’80».

Gli anni in cui negli stadi e nelle nostre città ogni domenica impazzava la guerriglia urbana. E questa, nessuno ha saputo raccontarla sul grande schermo meglio di Ricky Tognazzi in Ultrà. Pellicola premiata al Festival di Berlino del 1991 e in cui Gianmarco interpreta l’ultrà romanista Ciafretta. «Per arrivare a dialogare con Ugo ho sempre seguito la strada di Ricky, e quel film ha cambiato anche il corso della mia carriera di attore. Mi ha permesso di riprendere a studiare recitazione con Beatrice Bracco e di tracciare una linea con un passato fatto di tentativi per poter dire che anch’io, come mio padre, che venivo dalla gavetta. Fin lì, avevo accettato programmi televisivi “minestronici” su Canale 5 e la conduzione del celeberrimo Festival di Sanremo dei “figli d’arte” (1989, con Beppe Grillo battitore libero sul palco dell’Ariston) che mi procurò una fama nazionalpopolare ma allo stesso tempo aveva ulteriormente incrinato i rapporti con Ugo».

Motivo? «Con sua grande soddisfazione, Pupi Avati mi aveva scelto per una parte in Storie di ragazzi e ragazze che si sarebbe girato nello stesso periodo di Sanremo, in cui tra l’altro venni preso a mia insaputa, ma la notizia sparata sulle prime pagine dei giornali mandò su tutte le furie mio padre». Momenti di comprensibile “Ugoismo”, classiche tensioni tra un «padre provocatore a cui rispondevano le provocazioni di un figlio». Infine, una pace amorevole, da brivido, sancita sotto i riflettori del piccolo Teatro Argot: Gianmarco in scena con Crack. Lo spettacolo teatrale di Giulio Base, al quale Ugo Tognazzi assistendo in prima fila alla prova attoriale del figlio rimase letteralmente folgorato.

«Già la palestra di pugilato, in cui era ambientata la storia, l’aveva colpito, ma poi la fisicità che sprigionavano gli attori che tutte le sere per tre round se le davano sul serio, alla fine dello spettacolo lo fece scattare in piedi e gridare emozionato: “Braviii!”. Quell’applauso e quel suo grido di approvazione è stato il lasciapassare del fuoriclasse delle scene Ugo che mi diceva: “sì, questo è il tuo mestiere”». Un mestiere che con un pizzico di amarezza dice, «è diventato un hobby da quando in questo Paese i politici hanno decretato che con la cultura non si mangia. L’arte, compresa quella cinematografica, consente a tutti, senza studi specifici né alcun tipo di professionalità, di accreditarsi come attori e registi. È un po’ come se nel calcio anche chi gioca in un campetto di periferia alla domenica diventa titolare in Serie A... Il calcio poi, rispetto al cinema, si è dato delle regole che tutelano il professionista. Perciò, oggi il mio vero lavoro è fare il vino della nostra azienda di famiglia a Velletri, “La Tognazza”».

I vini che portano l’etichetta del Conte Lello Mascetti, il nobile decaduto del film cult Amici miei, il cui II atto uscì in sala l’anno dopo La tragedia di un uomo ridicolo di Bernardo Bertolucci. Il film che, dopo le prove degli anni ’60 ne Il federale di Luciano Salce e La donna scimmia di Marco Ferreri, consacrò Ugo Tognazzi (premiato come migliore interpretazione maschile al Festival di Cannes 1981) attore non più solo comico. Tra i “quattro moschettieri” della commedia all’italiana, Tognazzi, Sordi, Gassman e Manfredi, non perché era mio padre ma Ugo possedeva in più il dono della “preveggenza”. La sua filmografia è costellata di personaggi ostici, ai quali interpretandoli, gli imprimeva un’umanità e uno sguardo critico che coincideva con lo specchio della società del tempo – spiega Gianmarco – . Il suo “life style” lo rendeva sempre un uomo più avanti degli altri: per primo aveva sposato la famiglia allargata con mogli straniere, parlava di pomodoro più buono se preso dall’orto di casa, quando ancora il “Km 0” era un’eresia. E poi, anche nello sport, il torneo di Tennis al campo di Villa Tognazzi (a Torvajanica, premio al vincitore lo Scolapasta d’Oro) che aveva ideato nel 1966 ha fatto da apripista a tutte le Nazionali attori e cantanti che hanno proliferato poi con partite e manifestazioni di incontro e di beneficenza».

Siamo tornati allo sport, al tennis giocato anche in modo fantozziano («Paolo Villaggio, con Ferreri, Salce, Gassman e Raimondo Vianello sono stati gli amici fraterni di Ugo») e alle sfide raccolte da padre e figlio, come quella di andare assieme allo stadio per tifare la stessa squadra del cuore, il Milan. «Lui diceva che la Cremonese, la squadra della sua città e del presidente compagno di scuola, Domenico Luzzara, era la “moglie” e il Milan “l’amante”. E anche questo l’ho ereditato. La prima volta che Ugo mi ha portato allo stadio avevo 4 anni: Milan-Bologna 3-1. Da padre, ho fatto la stessa cosa con mio figlio Tommaso, a 4 anni era con me per un Milan-Bologna 3-0. A differenza dei miei fratelli, io sono un tifoso accanito, sciarpa e tessera della Fossa dei Leoni e delle Brigate Rossonere... Andavo a San Siro che avevo 12 anni: partivo in treno di nascosto da mio padre e dormivo a Milano a casa della nonna... L’ho portato con me alla finale di Champions (Milan-Steaua 4-0) al Camp Nou di Barcellona dove non venne, ma gli mandai il mio messaggio con lo striscione “Cia Ugo”.

L’ultima volta è stato pochi mesi prima che morisse (27 ottobre 1990), Mondiali del ’90 all’Olimpico, Italia-Uruguay... in Curva – si ferma e sorride imitando la voce del padre – «Gianmarco dove (bip) mi hai portato... non si vede niente ». Sembra di riascoltare la voce di mister Ferroni, Ugo Tognazzi allenatore in Ultimo minuto di Pupi Avati. «L’ultimo minuto della sua vita Ugo aveva una sola paura: essere dimenticato... Questo Paese sta facendo di tutto per dimenticare il suo immenso patrimonio artistico che è fatto anche dei tanti film di Ugo Tognazzi. La vittoria, di tutti, sarà salvare la memoria e saperla trasmettere ».

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