mercoledì 6 marzo 2024
Oggi, nella Giornata europea dei Giusti, il “giornalista più arrestato d’Iran” ricorderà al Giardino dei Giusti di Milano la moglie Narges Mohammadi, Nobel per la Pace 2023, rinchiusa in carcere
Taghi Rahmani

Taghi Rahmani - Sara Del Dot

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Quando Narges Mohammadi era solo una ragazzina, sua madre le chiese di non entrare mai, per nessun motivo, in politica. Il prezzo da pagare, in un Paese come l’Iran, sarebbe stato troppo alto. Evidentemente Narges ha deciso di non ascoltare sua madre. A 52 anni conduce la sua attività politica dal carcere di massima sicurezza di Evin, dove la repressione è aumentata dopo che le è stato dedicato il Nobel per la pace. Oggi, Giornata europea dei Giusti, sarà onorata al Giardino dei Giusti di Milano e a rappresentarla ci sarà suo marito Taghi Rahmani, storico e giornalista, esule a Parigi e anche lui profondo conoscitore delle carceri iraniane. “Il giornalista più arrestato d’Iran”, l’ho ha definito qualche tempo fa “Reporter senza frontiere”.

Come sta sua moglie Narges? Solo qualche giorno fa è morto suo padre e sappiamo che le sue condizioni di salute sono precarie.

«Dopo che Narges ha ricevuto il Nobel, la Repubblica islamica le ha imposto condizioni carcerarie ancora peggiori e ovviamente non le è stato concesso di partecipare al funerale del padre. Ma Narges continua a resistere».

Lunedì sono stati diffusi i risultati delle elezioni parlamentari dello scorso venerdì. Pare che il dato più interessante sia l’astensionismo: il più alto dalla Rivoluzione del 1979. Narges, dal carcere, ha invitato a boicottare i seggi. Può essere visto come un mezzo successo?

«Il regime di fatto è costretto a fare dei passi indietro. Su tre iraniani, due non hanno votato. Anche tra chi si è presentato, molte schede sono state nulle. Questo è accaduto nonostante Khamenei minacciato chi non fosse andato a votare, dicendo che non votare corrispondeva a odiare il proprio paese e l’islam. Di certo questo risultato è merito della lotta delle donne e degli uomini iraniani che si sono uniti al movimento nato dopo la morte di Mahsa Amini. E le donne in carcere sono parte integrante di questa lotta. La mia opinione è che questa lotta continuerà».

Lei conosce molto bene il sistema repressivo. Cosa vuol dire vivere nelle carceri iraniane?

«La prigione iraniana è di fatto una punizione del regime per fermare i movimenti sociali. La presenza stessa dei prigionieri è simbolo concreto dell’esistenza della resistenza: ogni volta che si crea un movimento di protesta il numero degli arrestati aumenta. Dopo la morte di Mahsa Amini sono state arrestate 30mila persone. Ma questo non impedisce la lotta».

Cosa si fa da fuori per aiutare le prigioniere politiche?

«Narges ha sempre sostenuto la lotta delle carcerate e chiesto l’aiuto della società civile e degli organismi internazionali. La società internazionale ha sostenuto efficacemente la lotta del popolo iraniano all’inizio delle proteste. E il considerarla Giusta vuol dire aver colto il senso di questa protesta. Alle Nazioni Unite ha chiesto di inserire l’apartheid di genere tra i crimini contro l’umanità. Perché l’Iran ha, di fatto, creato un apartheid di genere istituzionalizzato. Ed è un paradosso, visto che nel Paese il numero delle studentesse universitarie è maggiore di quello degli studenti maschi».

Di apartheid di genere Narges parla anche nel messaggio che ha fatto recapitare agli orga nizzatori della cerimonia di Milano. Colpisce che non si sofferma soltanto sulla condizione delle donne iraniane ma menziona anche l’Afghanistan. La sua battaglia ha uno sguardo internazionale?

«La condizione della donna è una questione internazionale. In Afghanistan addirittura le donne non vanno a scuola e anche in Nord Africa ci sono questi problemi. È un sistema diffuso, e bisogna fare pressione agli Stati affinché venga distrutto».

In che modo si può fare questa pressione?

«La società civile occidentale deve diventare più sensibile. Gli Stati occidentali curano i propri interessi e non dialogano quanto dovrebbero con le proprie società civili. Dopo il 1990, e ancora di più con la rivoluzione digitale, gli Stati si sono molto avvicinati. Voglio dire che se in un’università araba o iraniana si insegna il fondamentalismo, questo può avere conseguenze anche in altri luoghi. Per questo la democratizzazione di ogni paese è fondamentale per tutti. Però gli Stati seguono i propri interessi economici. La Repubblica islamica fa affidamento su questo e a pagarne le conseguenze sono anche i cittadini degli Stati occidentali. Siamo tutti interconnessi: ogni guerra, ogni repressione comporta una serie di ristrettezze economiche e rincari che poi gravano sulle persone, ma non su chi comanda. Il risultato delle sanzioni occidentali è stato questo. Ora il petrolio iraniano continua a essere venduto, ma a un presso più basso, ai cinesi. La stampa e la società civile devono raccontare la verità di quello che accade in Iran e far pressione sui propri Stati. Altrimenti c’è uno scollamento che fa male a tutti, ed è il rischio di un uso distorto della tecnologia».

La tecnologia ha avuto un ruolo importante nel movimento “Donna vita libertà”, che è stato l’ultimo capitolo di una lunga storia di attivismo contro il regime, molto spesso condotto in clandestinità. Del resto lei ha conosciuto sua moglie perché Narges ha frequentato negli anni ’80 le sue lezioni clandestine di storia. A distanza di decenni e tenendo conto delle migliaia di persone arrestate e uccise, come vede il futuro?

«Il regime che governa l’Iran nasce da una rivoluzione e per questo è molto difficile da estirpare. I regimi che nascono in questo modo hanno due strade: la democrazia o il caos. Nel mio Paese è stata intrapresa la seconda. Ogni stato è fondato su quattro fattori: culturale, sociale, economico, politico. Questo regime non ha nessun legame culturale, sociale o di crescita economica con il popolo. Tutto viene mantenuto solo dalla repressione. Sono i dati ufficiali di Teheran che dicono che il 75% degli iraniani è stanco della teocrazia. Ma non so come avverrà il passaggio a un nuovo sistema».

Non si è fatto un’idea a riguardo?

«Ci sono tre possibilità. Se la società civile che si rinforza, grazie ai sindacati e alle associazioni di categoria (tipo quella degli insegnanti) può far pressione sul regime. Altrimenti c’è la strada della protesta in piazza a oltranza. E poi c’è una terza, che io temo. Fanno crollare il regime degli ayatollah e mettono al potere una sorta di Putin. Per evitare che accada è fondamentale il ruolo delle società occidentali. Magari grazie a loro può avvenire un “nuovo Sudafrica”».

Crede che l’aggressiva politica internazionale iraniana possa essere un nuovo motore per lo scontento popolare? Stando ai report, il Paese soffre la fame eppure Teheran finanzia guerre ed eserciti in tutto il Medio Oriente.

«La Repubblica islamica è così potente grazie agli Stati Uniti. L’Isis in Iraq è cresciuto, di fatto, grazie alle scelte strategiche di Iran e Usa. Può sembrare strano, ma la politica statunitense influenza notevolmente la repressione in Iran. Quello che ha fatto in Iraq, l’abbandono dell’Afghanistan: sono azioni che danno grandissimo beneficio al regime di Teheran. Ma questo vale anche per il conflitto in Medio Oriente: mentre Israele bombarda Gaza, l’Iran vince e foraggia Hamas. Il punto è che la Repubblica islamica finanzia le guerre per mantenere lo status quo in casa. Se i Paesi occidentali incidessero per arrivare alla pace in Medio Oriente, anche per noi in Iran sarebbe più facile. E ripeto, le sanzioni fanno male alla popolazione ma non al potere».

Secondo l’accezione di Gariwo, i Giusti sono quelli che lottano per la dignità umana anche a costo della propria vita o con estrema sofferenza. Sembra proprio il caso di Narges. Questa sofferenza è condivisa dalla sua famiglia. Che futuro vede per i suoi figli, che così tanto hanno sofferto per la lontananza dalla loro madre?

«Voglio precisare una cosa. Ci sono molte famiglie combattenti in Iran, noi siamo solo una delle tante. Noi vorremo tornare in Iran, i miei figli non vedono da nove anni la loro madre. Soffrono tanto, ma cerco di raccontare loro il lungo cammini per la libertà del proprio paese e che questa lotta sarà importante per lo sviluppo della loro personalità. Per chi combatte, il riconoscimento come Giusto che verrà dato a Milano a Narges può alleviare un po’ del dolore».

Cosa le manca più di Narges?

«Devo ammettere che tutto di lei mi manca molto. Quando ami una persona vorresti sempre stare con lei. Ma colei che ami è sempre nei tuoi occhi e dentro di te, come dicono i versi del poeta iraniano Baba Tahir».

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