giovedì 7 novembre 2013
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​Storie di sommersi e di salvati che riemergono da Assisi Underground (come recita il titolo del film di Alex Ramati, del 1985). La badessa del monastero assisiate di San Quirico, madre Maria Giuseppina Biviglia non ha corso «quaranta volte» in bicicletta la tappa "anti-Shoah" Firenze-Assisi-Firenze, come fece Gino Bartali su espressa richiesta del vescovo fiorentino monsignor Elia Dalla Costa. Non ha neanche strappato direttamente dalle strade che portano ad Assisi o dalla stazione ferroviaria di Santa Maria degli Angeli, decine di ebrei erranti in fuga dai persecutori nazifascisti, ruolo che per espressa volontà dell’allora vescovo della città di San Francesco, monsignor Giuseppe Placido Nicolini, toccò in sorte al guardiano del convento di San Damiano, padre Rufino Niccacci.Per tutto ciò, i protagonisti sin qui elencati e che furono parte attiva della "rete di aiuti" che si creò ad Assisi dall’8 settembre del 1943 al 17 giugno 1944, (giorno della liberazione del borgo natale del Poverello da parte delle truppe alleate) "quasi tutti" sono stati riconosciuti da tempo "Giusti tra le nazioni". Tutti insigniti e commemorati con i loro nomi al Museo dell’Olocausto di Gerusalemme (lo Yad Vashem), tranne madre Maria Giuseppina Biviglia, per la quale però, fanno sapere da Israele, nei prossimi mesi arriverà il meritato riconoscimento di "Giusto fra le nazioni". All’epoca alla quale risalgono i "salvataggi" compiuti nel monastero di clausura delle Sorelle Povere di Santa Chiara, madre Maria Giuseppina, folignate di Casenove, era già da vent’anni all’interno della struttura ecclesiale. Entrata venticinquenne in San Quirico (il 13 maggio 1922), il 2 marzo del 1942 annota nel Libro delle memorie del monastero: «Dio mi presentò la croce del superiorato: sebbene riluttante la presi per santa obbedienza». Spirito di una "donna giustissima", piena di umanità, che dinanzi alla segreta richiesta del vescovo Nicolini di prestare aiuto (partita nel 1939 da Papa Pio XII) agli ebrei e ai militari braccati dalla follia sterminatrice, mostrò un coraggio eroico, ma senza mai nascondere l’umana fragilità. «Qualche volta opposi un po’ di resistenza all’accettazione di queste persone, sentendo tutta la responsabilità della mia posizione di fronte alla comunità e temendone per questa qualche conseguenza: ma in quei momenti fui sempre incoraggiata dal nostro Venerato Superiore, da altri sacerdoti e dalle mie stesse consorelle ad agire in favore di quei poveretti». È la testimonianza di una donna impaurita, che temeva il peggio per l’intera popolazione di Assisi e per la sua piccola comunità: 25 consorelle intente al telaio e vissute, sin dai primi del ’400, in un ambiente claustrale che neppure i saraceni avevano osato profanare. Lì dentro invece, in quei sei mesi bui e tempestosi della storia dell’umanità, decine di uomini e donne varcarono la soglia della clausura, nascosti accortamente nella foresteria, mimetizzandosi, spesso, indossando i mantelli delle suore. «C’erano anche molti bambini, gente ammalata... – ha raccontato madre Maria Giuseppina –. Ogni tanto qualcuno bussava alla porta e, aprendo, trovavamo un sacco di grano o un capretto, doni di benefattori sconosciuti». Chi bussava a San Quirico, veniva nascosto sotto false spoglie. I "nuovi documenti" delle famiglie Kropf, Gelp, Baruch, Jozsa, Maionica, che è quella che ha richiesto il riconoscimento insieme alla signora Grazia Viterbi, venivano stampati dalla macchina "Felix" della tipografia (vicina alla cattedrale di Santa Chiara) di Luigi Brizi che, col figlio Trento, dava nuova identità ai clandestini. Il trasporto spettava all’insospettabile campione di ciclismo, Gino Bartali, il quale nascondeva i documenti nella canna o sotto il sellino della sua bici «color ramarro» e al traguardo finale del monastero veniva accolto e rifocillato da tre suorine, Amata, Alfonsina e Candida. La paura iniziale, con il passare delle settimane divenne puro spirito di missione. «Si obbediva solo a un sentimento che sorgeva spontaneo di volta in volta che si presentavano dei disgraziati... La pietà avrebbe trionfato come trionfò. E trionfò per amor di Dio e del prossimo...», scrive madre Maria Giuseppina. Ma il trionfo quotidiano, a rischio della vita di tutti gli abitanti di quella casa salvifica che, non a caso, la madre badessa aveva ribattezzato "l’arca di Noè", subì un brusco arresto il 26 febbraio del ’44. «La macchina dell’assistenza ai rifugiati funzionò senza problemi sino a quella data – scrive Barbara Garavaglia nel suo saggio "L’arca di Noè a San Quirico" – A seguito di un controllo, venne scoperto un giovane con documenti contraffatti, il quale rivelò di essere alloggiato al monastero». Si trattava del croato Paolo Josza, alias Paolo Macrì, già evaso da un campo di concentramento nella ex Jugoslavia e del tenente dell’aeronautica Antonio Podda, che in clandestinità era diventato Giorgio Cianura. Alla loro cattura seguì l’ispezione a San Quirico dei funzionari della Repubblica Sociale ai quali madre Maria Giuseppina Biviglia, pur sotto la minaccia d’arresto, oppose strenua e disperata resistenza: «Eccomi pronta; munitevi del permesso, perché son monaca di clausura e non posso abbandonarla senza autorizzazione. Per grazia di Dio non ne fu nulla...».Quell’episodio a San Quirico fu l’apice del terrore provato in quel tempo temerario in cui, la presenza di cunicoli medioevali e della botola che collegava la clausura ai sotterranei e alla «grotta» era pienamente servita allo scopo: mettere in salvo tante anime ingiustamente destinate ai campi di sterminio. Pertanto, figli e nipoti di quei salvati, oggi vogliono dire grazie a questa suora coraggiosa, spentasi a 94 anni (nel 1991) e all’opera caritatevole delle sue consorelle di San Quirico, dove l’odierna madre badessa, Chiara Benedetta Gonetti, manda a futura memoria: «Non possiamo dimenticare come Assisi divenne porto sicuro di tante persone e, in una persecuzione in cui morirono sei milioni di ebrei su sei milioni e mezzo che vivevano in Europa, come ad Assisi nessuno abbia perso la vita».
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