sabato 8 aprile 2017
Cento anni fa la nascita dell'eclettico cineasta. Fu regista di Totò e Sordi ma il pupillo di Longanesi possedeva un grande talento per la scrittura
Il regista Steno sul set di "Un giorno in pretura" con i figli Enrico e Carlo Vanzina

Il regista Steno sul set di "Un giorno in pretura" con i figli Enrico e Carlo Vanzina

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Da martedì 11 aprile, fino al 4 giugno, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma si potrà visitare la mostra “Steno, l’arte di far ridere. C’era una volta l’Italia di Steno. E c’è ancora”. Con materiale inedito concesso dalla famiglia Vanzina e in collaborazione degli archivi Studio EL Cinecittà, Latitudine, la mostra ricostruirà la storia professionale e privata del regista. In libreria invece, e in occasione della mostra, a vent’anni dalla prima edizione di Sellerio viene riproposto il diario giovanile di Steno, Sotto le stelle del ’44 (Rubbettino). Una riedizione arricchita dalle immagini del diario originale di Steno, uno zibaldone che descrive il suo mondo di cui Tullio Kezich ebbe a dire: «C’era la piena consapevolezza di vivere tempi eccezionali e la diaristica ne fu l’inevitabile conseguenza. A parte che gli attori in commedia erano quasi tutti 'primi', come poi forse non è più accaduto».

Tutto ciò che Mario Monicelli sapeva sul cinema l’aveva appreso da Stefano Vanzina, in arte Steno. E i suoi due figli, lo sceneggiatore e produttore Enrico e il fratello regista Carlo, possono dire altrettanto, con in più «aver beneficiato di un padre che è stato un autentico maestro di stile e di vita». Un genio assoluto, Steno, “padre” indiscusso della commedia all’italiana ma ingiustamente meno celebrato rispetto a Dino Risi e Monicelli, per non parlare degli altri grandi maestri del nostro cinema del dopoguerra: «Il nostro secondo Rinascimento, da far conoscere e studiare ai giovani d’oggi che non ne sanno quasi nulla e per questo, con mio fratello Carlo, pensiamo che andrebbe introdotto il “reato di memoria” », sottolinea Enrico Vanzina, con il quale ripercorriamo le tappe di un percorso umano e artistico che potremmo definire “Stenostory” o ancor meglio “Stenofilia”. Un autore meno citato, anche perché il destino del cineasta Steno, di cui ricorre il centenario – era nato ad Arona il 19 gennaio del 1917 –, forse era già scritto nel titolo del suo primo film in condirezione con Monicelli, Al diavolo la celebrità. Al debutto cinematografico Steno aveva 32 anni ed era già stato speaker radiofonico durante la guerra («sua moglie, nostra madre Maria Teresa, anni dopo l’avrebbe riconosciuto dalla voce e se ne sarebbe innamorata») e giornalista in quel laboratorio di genialità rampanti che fu il “Marc’Aurelio”, Il giornale satirico in cui mossero i primi passi i suoi collaboratori, colleghi e amici di una vita: «Gli adorati sceneggiatori Furio Scarpelli e Agenore Incrocci, in arte Age», Attalo (pseudonimo di Gioacchino Colizzi), Vittorio Metz, Marcello Marchesi, Cesare Zavattini, Mario Camerini, Ettore Scola, e il giovanissimo e allampanato riminese Federico Fellini, per il quale Steno («che lo assunse dopo un breve esame di disegno») rimase sempre il suo “Stenino”.

«Papà a me e Carlo raccontava di Attalo che giudicava i suoi scritti con dei lapidari; “A Stè nun fa ride... oppure “Sì questa fa’ ride”... e solo a quel punto si poteva dare alle stampe». Con Fellini fino all’ultimo parlarono di un film assieme, le Ciccione volanti che altro non erano che un prodotto delle loro fantasie dei tempi del “Marc’Aurelio”. «Nostro padre non è stato solo il regista dei film di Totò o il creatore di quella maschera di Nando Meniconi (alias Alberto Sordi) in L’americano a Roma, ma era l’amico dei maggiori scrittori e artisti del suo tempo, i quali a loro volta gli riconoscevano un carisma e un’aurea da intellettuale ». Il giovane Steno si era formato al liceo Mamiani, poi gli studi in Giurisprudenza e il diploma di scenografo all’Accademia di Belle arti. Ma era prima di tutto un “laureato” nell’arte degli incontri, a cominciare da quel periodo, durante la guerra, in cui a Napoli visse assieme a Leo Longanesi e Mario Soldati. «Un gigante – nonostante la sua statura – come Longanesi che, pur con dodici anni di differenza, considerava Steno alla pari: lo aveva preso sotto la sua ala protettiva e nel 1946 aveva pubblicato Memorie del cameriere di Mussolini che reca la firma dell’improbabile Quinto Navarra, in realtà quel libro fu opera del “ghostwriter” Steno. Poi Indro Montanelli ci rimise un po’ mano...». Il caustico “Cilindro” una vol- ta stroncò Steno, salvo ammettere tempo dopo, davanti a Enzo Biagi e Pietro Barilla durante una passeggiata estiva a Cortina: «Non l’avevo neanche visto il tuo film, ma dovevo scrivere male del cinema italiano e ti ho messo in mezzo». Montanelli conosceva bene le doti narrative e giornalistiche di Steno e più tardi lo volle come elzevirista al “Giornale”: «Papà scrisse una trentina di articoli in tutto ma sono di una finezza incredibile e denotano uno sguardo sempre originale sul Paese. Andrebbero ripubblicati».

Lo stesso sguardo e quella giusta distanza da Roma che mantenne fino all’ultimo («perché aveva conservato saldamente le radici lombardo- piemontesi», aggiunge Carlo) e che gli permise di entrare nelle grazie dei «maestriamici »: Anton Giulio Bragaglia e Mario Mattoli, che gli avevano fatto da padrini di battesimo nel cinema; e ancora Alessandro Blasetti e Mario Camerini («Mario, socialista nenniano ma duca di Paganica, grande frequentatore delle corse a Capannelle dove mi portava da bambino», ricorda Enrico) e il quasi coetaneo (era del 1915) Mario Monicelli. «Con Mario hanno lavorato molto assieme e non c’era domenica che non cenasse con Alberto Sordi e la nostra famiglia... Monicelli stimava tantissimo papà come regista e una sera al Piccolo di Milano mi confidò amareggia- to: “Ho un rimpianto: nessuno ha mai detto a Steno che era il miglior sceneggiatore che abbiamo avuto. Scriveva divinamente”». Talento per la scrittura ereditato dal padre, «nostro nonno Alberto, giornalista del “Corriere della Sera”: fondò il primo giornale italiano in Sudamerica», e poi dalla frequentazione quotidiana, al caffè Greco e nei salotti letterari di via Veneto, di sodali e pensatori del calibro di Flaiano, Marcello Marchesi e il romanziere, anche lui prestato al cinema, Ercole Patti. «Papà adorava Patti per l’eleganza e lo stile, in cui si rispecchiava. Flaiano lo stesso, e addirittura Patti era l’unico che lo metteva in soggezione». Steno viaggiava, visitava musei con la famiglia al seguito, leggeva molto, girava film di successo, frequentava l’ultima intellighenzia italica, coltivava l’arte sana e arguta dell’umorismo, ma la sua più grande passione era lavorare con i comici. «Prediligeva il genere comico, quando ancora esisteva la distinzione tra i generi, memore di Flaiano che sosteneva, e a ragione: “Con il tempo tutti i film drammatici si avviano a diventare comici”. Steno conosceva come pochi altri il doppio volto di Totò: la maschera popolare davanti alla sua cinepresa e il principe Antonio De Curtis («il principe si sbellicava rivedendo al montaggio Totò», dice Enrico) che trincerandosi dietro gli occhialoni scuri girava in Cadillac per i Parioli con l’autista in livrea. Ma Steno una sera vide Totò piangere: «Fu quando lo premiarono a Napoli, la sua città – racconta ancora Enrico – e papà era l’unico del mondo dello spettacolo che era andato a rendergli omaggio ». All’altro grande pupillo, Alberto Sordi, è andata meglio, sia con la critica che con il pubblico: «Steno si rese conto, dopo aver girato con lui film come Un giorno in preturao Piccola posta, che a forza di mettere in risalto i difetti dell’italiano medio alla fine quello copiava e prendeva a modello lo stesso Albertone cinematografico... ».

Nel grande cast steniano figurano poi Renato Rascel, Ciccio Ingrassia e Franco Franchi, Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello, Enrico Montesano e Gigi Proietti diretti in quel cult che è ormai Febbre da cavallo. «Papà amava scoprire i giovani e l’ultima intuizione fu Diego Abatantuono, che nel Tango della gelosia esprimeva già tutta la sua futura vocazione. Ma Steno era affascinato principalmente dagli artigiani del cinema: Panelli, Mario Carotenuto, Tina Pica, Franca Valeri, Tedeschi, Salce, Caprioli... Adorava, come l’Italia d’allora, chi nell’arco di un film sapeva far ridere e stare bene la gente». Un maestro del buonumore che perse soltanto due volte in 71 anni (Steno morì nel 1988): «Quando nel 1955 l’allora sottosegretario e futuro presidente della Reubblica Oscar Luigi Scalfaro censurò Le avventure di Giacomo Casanova (protagonista Gabriele Ferzetti e riproposto senza tagli al Festival del cinema di Venezia del 2005) e una querelle misteriosa, con tanto di querela, contro Giuseppe Marotta. Una vicenda che lo faceva stare talmente male che in casa non se ne parlava mai». Una questione fastidiosa quanto i “complica-tori”, categoria umana coniata da Steno per definire quegli esseri umani capaci di generare disagi alla comunità, come mettere le valigie di traverso e creare code imbarazzanti alle stazioni ferroviarie o in aeroporto... «Oggi purtroppo i complicatori sono in sensibile aumento: quando viaggio spesso penso a quante risate avremmo fatto con papà nell’osservare quelli che non fanno che stare al cellulare nella tratta Roma-Milano – conclude Enrico –. Li osservi, li ascolti, e ti rendi conto che l’Italia dei Totò e dei Sordi è sempre la stessa di allora». E Steno, quel-l’Italia, che sopravvive ancora, aveva saputo tratteggiarla con affetto e con una delicatezza che rimarrà per sempre la sua inimitabile cifra stilistica.

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