venerdì 18 aprile 2025
Balconi: «Il benessere è un concetto complesso. Non si tratta soltanto di una condizione momentanea, ma di uno stato che deve poter durare nel tempo, integrando aspetti fisici, psicologici e mentali»
Alessio Deli, “Patina Memoriae 1”

Alessio Deli, “Patina Memoriae 1” - Leeloo

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In un’epoca in cui siamo bombardati da stimoli continui, inseguendo spesso una felicità effimera, viene spontaneo chiedersi: che cosa succede nel cervello quando stiamo bene (o quando ci sentiamo a disagio o in sofferenza)? E che cosa possiamo fare per migliorare il nostro benessere? Non è sorprendente che le neuroscienze offrano alcune risposte. Era però difficile finora trovare una sintesi aggiornata e non superficiale delle ricerche e dei trattamenti più avanzati. A colmare questa lacuna è un interessante volume di Michela Balconi, professoressa di Neuroscienze cognitive all’Università Cattolica di Milano, dove dirige l’International Research Center for Cognitive Applied Neuroscience e l’Unità di ricerca in Neuroscienze sociali e delle emozioni. Neuroscienze del benessere (Carocci, pagine 258, euro 27,00 – realizzato con la collaborazione di tre giovani validi studiosi: Lauria Angioletti, Davide Crivelli e Katia Rovelli) permette un’immersione nell’affascinante mondo del cervello e della sua modulazione al fine di renderci, se non più felici, almeno un po’ più sereni.

Professoressa Balconi, partiamo con il concetto di benessere, declinato in molti modi secondo diverse prospettive. Qual è il suo approccio e perché c’entrano le neuroscienze?

«Il benessere è un concetto complesso e sfaccettato. Non si tratta soltanto di una condizione momentanea, ma di uno stato che deve poter durare nel tempo, integrando aspetti fisici, psicologici e mentali. Le neuroscienze ci aiutano a comprendere questa continuità, studiando non solo la risposta fisiologica del corpo, ma anche come questa si intrecci con la dimensione cognitiva, emotiva e relazionale. In particolare, le neuroscienze sociali evidenziano quanto il benessere personale sia strettamente legato alla qualità delle interazioni con gli altri».

Sembra di capire che la felicità, così elusiva e sfuggente, oggi rientri nell’ambito scientifico, e possiamo, se non costruirla a comando, almeno incrementarla un po’ grazie alle conoscenze attuali sul cervello. È così?

«Sì, oggi possiamo analizzare la felicità anche con strumenti scientifici. Le neuroscienze ci mostrano come alcuni meccanismi cerebrali siano alla base della costruzione di esperienze positive. La felicità, tuttavia, non è solo uno stato da vivere, ma anche da riconoscere: dobbiamo essere in grado di percepirci come felici. Psicologia e neuroscienze si incontrano qui, studiando come ci auto-rappresentiamo, come sviluppiamo resilienza e come affrontiamo le difficoltà con risorse interne adeguate».

Tra i primi temi che con il suo gruppo tocca nel libro, c’è quello della regolazione delle emozioni. Che cosa possiamo fare oggi con nuovi strumenti rispetto, per esempio, allo stoicismo antico, che tra l’altro è tornato di moda?

«Oggi abbiamo strumenti più raffinati per comprendere e regolare le emozioni, ma il principio resta simile: conoscere se stessi. La capacità di riconoscere le proprie emozioni e comprenderne l’origine, attraverso un’attività di auto-valutazione (assessment), è fondamentale. Le neuroscienze ci aiutano a osservare anche segnali corporei interni, come quelli legati all’interocezione, che indicano il nostro stato emotivo. L’interocezione riguarda infatti il battito cardiaco, la fame, la sete o la respirazione. È fondamentale per riconoscere come stiamo. Regolare le emozioni significa, quindi, prima di tutto saperle leggere e interpretare nel contesto in cui si manifestano».

Tra i pregiudizi sulle neuroscienze, vi è quello di un loro approccio puramente individualistico. Invece esiste una tecnica per migliorare la sintonia tra persone e le relazioni come l’hyperscanning...

«Esatto, oggi non possiamo più pensare al benessere come una questione esclusivamente individuale. Il benessere nasce anche e soprattutto dalla qualità delle relazioni. Le neuroscienze sociali lo dimostrano: viviamo e costruiamo identità all’interno di contesti relazionali. Tecniche come l’hyperscanning ci permettono di studiare in tempo reale la sincronizzazione tra due o più cervelli (brain-to-brain), analizzando la coerenza delle risposte neurali durante un’interazione. L’hyperscanning consente di registrare l’attività cerebrale di due o più persone contemporaneamente, mentre interagiscono tra loro. Serve a studiare come i cervelli si sincronizzano durante situazioni sociali, come una conversazione o una collaborazione. Utilizza strumenti come elettroencefalogramma o risonanza magnetica funzionale in parallelo, e aiuta a capire la qualità della connessione tra le menti. È un modo per osservare scientificamente la qualità della connessione tra le persone».

Sul luogo di lavoro, sede di tante frustrazioni, il neuromanagement promette di aumentare l’efficienza ma anche la serenità. Come funziona questo insieme di interventi?

«Il neuromanagement è un ambito giovane ma in forte crescita. Parte dal presupposto che le persone non lasciano le proprie emozioni e vissuti fuori dall’ufficio. Integrare questa consapevolezza nei contesti organizzativi permette di migliorare relazioni, benessere e produttività. Un’area particolarmente interessante è la neuroarchitettura, che studia come gli spazi fisici—illuminazione, rumore, disposizione—possano influenzare lo stato mentale e favorire la qualità delle relazioni sul posto di lavoro».

Le dipendenze, sia da sostanze sia comportamentali, sono un’emergenza sociale: quanto possono aiutare gli interventi basati sulle neuroscienze?

Le dipendenze da sostanze e le cosiddette dipendenze comportamentali (dal gioco d’azzardo allo shopping compulsivo, fino alle dipendenze relazionali) sono vere emergenze sociali. In quest’ottica, le neuroscienze offrono un importante contributo sia in termini di prevenzione sia di intervento, aiutandoci a individuare le vulnerabilità individuali a livello fisiologico. Un’applicazione chiave riguarda le situazioni legate al meccanismo del reward, ovvero alla risposta del cervello alla ricompensa. Il sistema dopaminergico, centrale in questo processo, si attiva quando sperimentiamo piacere o soddisfazione. In questi casi, la risposta di ricompensa è funzionale al nostro benessere. Tuttavia, quando la ricerca del piacere diventa incontrollata, si innesca una dinamica di gratificazione continua che può condurre alla dipendenza. È qui che le neuroscienze possono intervenire, anche per interrompere la spirale disfunzionale, grazie a tecniche come il neurofeedback o il biofeedback. Questi strumenti aiutano a spezzare il circuito ripetitivo e automatico che sostiene la dipendenza, favorendo un recupero della consapevolezza e del controllo.

Le neuroscienze non solo possono aiutare quando abbiamo una sofferenza, ma aprono anche alla possibilità di “potenziarci” cognitivamente. È già realtà? In che forme e con quali tecniche?

«Sì, si parla oggi di neuroempowerment, che include sia il potenziamento cognitivo sia quello emotivo-relazionale. Le tecnologie disponibili—come neurofeedback e biofeedback—permettono di monitorare in tempo reale la propria attività cerebrale e imparare a rispondere meglio a stimoli esterni. Il biofeedback insegna a controllare funzioni corporee involontarie, come il battito cardiaco o la respirazione, usando sensori che mostrano in tempo reale cosa accade nel corpo. Aiuta a rilassarsi, ridurre lo stress o gestire il dolore. Il neurofeedback è un tipo di biofeedback che si concentra sull’attività cerebrale. Mostra su uno schermo come lavora il cervello (ad esempio, rappresentando le onde cerebrali come barche in navigazione) e aiuta la persona a modificarla volontariamente, migliorando attenzione, calma o autoregolazione. È un modo per conoscere meglio se stessi, migliorare le capacità di adattamento e sviluppare nuove strategie di risposta, con effetti positivi su apprendimento, attenzione, gestione dello stress».

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