venerdì 12 maggio 2023
Ambientato nel mondo yiddish fra Polonia e Argentina a inizio ’900 racconta di un arricchito delinquente che deve tutto a una donna: però fra lussurie e bassezze perde ogni cosa
Isaac Bashevis Singer (1903-1991)

Isaac Bashevis Singer (1903-1991) - WikiCommons

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«Dieci nemici non possono fare a un uomo il male che può fare a sé stesso», ammonisce un proverbio ebraico. E questo nessuno può confermarlo meglio di Max Shpindler, piccolo delinquente partito da Varsavia con la sola camicia addosso e diventato ricchissimo in Argentina. Dentro di sé Max sa di dovere molto alla moglie Flora, la cui breve carriera di attrice potrebbe nascondere più segreti di quanti il marito sia disposto ad ammettere. Insieme, sono una coppia formidabile e non soltanto per via dell’attrazione fisica che li unisce. Pur essendo analfabeta, Flora ha un talento innato per le lingue e un’intelligenza istintiva, che più di una volta ha aiutato Max nei suoi traffici. Lui, per parte sua, parla unicamente lo yiddish e coglie qualche parola di russo o polacco qua e là, ma legge ogni giorno un paio di quotidiani per intero, si informa, ragiona. Nessuno, forse neppure Flora, è però consapevole dell’inquietudine da cui Max è divorato, una specie di follia che lo induce a questionare con Dio e a crogiolarsi intanto nel peccato, sempre insoddisfatto, sempre alla ricerca di qualcosa che continua a sfuggirgli.

Che sia malvagio non è detto, ma di sicuro Max è reo di molte malvagità e, come spesso accade in questi casi, oscilla ininterrottamente fra il compiacimento di sé e l’autocommiserazione. Fino a quando non incontra la bella e giovanissima Rashka, che per amor suo farebbe qualsiasi cosa, anche seguirlo laggiù, a Buenos Aires, dove le brave ragazze osservanti vanno per lavorare in una fabbrica di borsette e poi sono costrette a prostituirsi. Mai apparso precedentemente in volume, Max e Flora appartiene alla piena maturità di Isaac Bashevis Singer, il grande scrittore insignito del Nobel per la letteratura nel 1978. L’edizione ora proposta da Elisabetta Zevi per Adelphi (pagine 240, euro 19,00) si basa sulla versione inglese – condotta con buona probabilità dallo stesso Singer – del testo inizialmente apparso nel 1972 su “Forverts”, la rivista yiddish di New York. Il pendolarismo da un idioma all’altro è una caratteristica ricorrente nell’opera di questo narratore instancabile e irrequieto, nato nel 1909 a Leoncin, nell’attuale Polonia, e morto a Miami nel 1991.

L’indeterminatezza linguistica è solo una tra le componenti dell’infinito gioco di specchi che Singer intrattiene con le vicende dei suoi personaggi, puntualmente dilaniati tra bassezza e misticismo. Non per niente, dalle pieghe di Max e Flora emerge il riferimento a Jacob Frank, il «falso messia» che invitava i seguaci a perseguire la salvezza per mezzo dell’abiezione. Una prospettiva che sembra non del tutto implausibile al protagonista di questo romanzo, terzo inedito di Singer a uscire in Italia grazie ad Adelphi dopo Keyla la Rossa e Il ciarlatano. Una gangster novel, così lo definisce la curatrice, riconducendo il racconto a un filone che – già esplorato altrove da Singer – è destinato ad avere la sua piena celebrazione al cinema, con il monumentale C’era una volta in America di Sergio Leone. La malavita alla quale Max appartiene, infatti, è quella dei faccendieri ebraici, solo che questa volta non siamo nel Bronx di un secolo fa, ma nella Varsavia del primissimo Novecento, con l’Impero russo formalmente ancora intatto eppure già minato dalle tensioni che sfoceranno nella rivoluzione bolscevica.

Max, tipica personificazione del capitalismo di rapina, non si preoccupa più di tanto delle no-tizie che provengono da Mosca e dintorni. Durante il soggiorno nella madrepatria, ospite con Flora in alberghi di lusso, si interessa più che altro al destino dei suoi compagni di malaffare, primo fra tutti il malandato Meir Panna Acida, delle cui imprese criminali potrebbe essere il legittimo erede. La prospettiva non dispiacerebbe neppure alla moglie del medesimo Meir, Leah Lingualunga, una delle tante donne verso le quali Max avverte una pulsione oscura, che non è ancora amore e non è più solo desiderio. L’ingresso in scena dell’innocente Rashka pare segnare un punto di svolta, ma il tentativo di fuga con la nuova amante si interrompe bruscamente a causa del richiamo che Flora non smette di esercitare. Di questa affollata compagine femminile fa pare anche Ida, la militante anarchica nei confronti della quale Max prova sentimenti di complicità, curiosità e infine repulsione. Quale tra queste sia la femme fatale che condurrà alla catastrofe è l’enigma supremo del romanzo, che Singer congegna con un’abilità prossima alla perfidia.

Forse però il vero baricentro di Max e Flora non sta nell’intrigo di efferate gelosie e ambizioni imperfette nel quale i personaggi si dibattono. A formulare la morale della favola è, come spesso accade, una figura minore e quasi marginale, ovvero il giornalista Kadishzohn, i cui articoli appaiono a Max il prodotto di una mente superiore. In realtà, lo scribacchino è a sua volta prigioniero di una contraddizione insanabile, quella di chi crede sì in Dio, ma non nella bontà divina. « Un Dio che ordina di macellare pecore e agnelli non può essere buono. Non dal punto di vista degli uomini, almeno. Se lo è dal punto di vista degli angeli, che lo lodino loro», proclama il disperato Kadishzohn. Ma quello che più ne capisce di teologia, probabilmente, è il moribondo Meir Panna Acida, persuaso del fatto che «se c’è un Dio, sta in cielo, non al cimitero». Anche di questo nessuno può rendere testimonianza meglio di Max, crudele e infelice come sempre sono gli esseri umani quando non si accontentano di amare e non si rassegnano a essere amati.

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