venerdì 26 gennaio 2018
Finalmente tradotto il volume di Alexandra Zapruder che raccoglie le testimonianze dei ragazzi negli anni dell'olocausto nazista
Pagine dal diario del giovane ebreo berlinese Peter Feigl

Pagine dal diario del giovane ebreo berlinese Peter Feigl

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Non si sa come ci sia arrivata, ma sta di fatto che un giorno del 1944 la bambola compare nei bagni femminili del ghetto di Terezin. Nonostante la molta sporcizia e la vistosa mutilazione (mancano le braccia), il ritrovamento non passa inosservato. «Una vera bambola è molto rara qui», ammette la giovanissima Eva Ginzová nel suo diario, aggiungendo che, aggiustata e rivestita con qualche pezzo di stoffa rimediato alla meglio, il giocattolo viene dato in dono a un’altra ragazzina ebrea, Milenka, in occasione del suo compleanno. Un frammento minimo dalla vita quotidiana ai tempi della Shoah, restituito con rigore e partecipazione dalla studiosa statunitense Alexandra Zapruder in un volume considerato ormai classico, Salvaged Pages, “Pagine salvate”, che solo ora arriva nel nostro Paese con il titolo I diari dell’Olocausto. I racconti e le memorie inedite delle giovani vittime delle persecuzioni naziste (traduzione di Marilena Rutili, Newton Compton, pagine 528, euro 9,90). È il risultato di una ricerca avviata nei primi anni Novanta, nell’ambito dei lavori che hanno preceduto l’inaugurazione dell’Holocaust Memorial Museum di Washington e proseguita per un decennio, fino alla prima edizione apparsa nel 2002, con acquisizioni spesso commoventi e inattese.

Da allora fino a oggi (del 2015 è l’edizione rivista, dalla quale dipende l’eccellente versione italiana), il libro curato da Alexandra Zapruder si è imposto come uno dei contributi più documentati e originali sulla memoria storica della Shoah. A dispetto di ogni superficiale analogia, infatti, Alexandra Zapruder si è sempre rifiutata di presentare gli autori di queste “pagine salvate” come «altri Anna Frank». Non soltanto perché la ricezione del più celebre fra i diari della Shoah è materia complessa e non priva di controversie (è possibile trasformare in simbolo universale una singola vicenda reale? e quanto è lecito spingersi nel processo di semplificazione per ottenere questo effetto?), ma anche perché le testimonianze radunate nel libro sono tutt’altro che univoche.

A più riprese emergono con chiarezza anche gli aspetti più contradditori, come le ambiguità e a volte le meschinità dei presunti protettori delle famiglie perseguitate (emblematica la situazione di continua incertezza nella quale viene a trovarsi la famiglia dell’adolescente Otto Wolf, che cerca rifugio nella foresta ceca) o l’accusa di collateralità nei confronti del nazismo rivolta ad alcuni Consigli ebraici (se ne trova traccia, fra l’altro, negli appunti degli ebrei polacchi Elsa Binder e Dawid Rubinowicz). Uno dei diaristi, il lituano Ilya Gerber, appartiene addirittura alla ristretta élite ebraica del ghetto di Kovno, circostanza che gli permette di riservare un po’ di spazio alle sue traversie sentimentali, ma che non gli impedisce di finire tra i sommersi della Shoah. Storie non sovrapponibili e personalità irripetibili, certo, ma qualche linea di continuità finisce comunque per delinearsi.

Una, forse la più rivelatrice, riguarda la consapevolezza culturale dimostrata da molti di questi ragazzi a dispetto della giovane età. Prendiamo Peter Ginz, il fratello della già ricordata Eva Ginzová. Presto disgustato dalla futilità del mero resoconto diaristico, il ragazzo inizia a tenere un ambizioso registro dei propri progetti artistici e letterari, con gli elenchi delle letture da compiere e degli approfondimenti ai quali dedicarsi. Più o meno nello stesso momento a Vilnius, in Lituania, il quindicenne Yitskhok Rudashevski abbozza uno studio sulla tradizione tipografica della sua città e si entusiasma per il potere salvifico della poesia. Ma è proprio un’antologia della lirica tedesca a mettere nei guai l’asutriaca Elisabeth Kaufmann, esule a Parigi: la polizia francese considera sospetti quei versi, non sarà che la ragazza è una spia? Un caso di grande fascino è costituito dalle osservazioni che un anonimo ragazzo di Lodz, affida ai margini dell’altrimenti dimenticato François Coppée, passando con disinvoltura dallo yiddish al polacco, e dall’ebraico all’inglese. Si deve a lui il neologismo “ghettoniano”, riferito agli ebrei in balia delle umiliazioni più impensate e dell’assedio incessante della fame. «Se un ghettoniano dovesse avere potere sull’universo – scrive fra l’altro il misterioso poliglotta– sicuramente non esiterebbe un istante e lo farebbe distruggere e avrebbe decisamente fatto l’unica cosa giusta!».

Espressioni altrettanto disperate ricorrono in altre testimonianze, come quella della romena Miriam Korber, che si interroga sconsolata sui «desideri mai esauditi da un Dio di vendetta o di compassione » o di un’altra anonima, sempre di Lodz, per la quale «non c’è giustizia al mondo, per non parlare del ghetto». La contesa teologicamente più serrata viene sollevata da un giovane sionista olandese, Moshe Finker, a sua volta straordinariamente versato nelle lingue (a sedici anni ne conosce già otto, alle quali intende aggiungere l’arabo per intraprendere la carriera diplomatica al servizio del futuro Stato di Israele). A mano a mano che in Europa la situazione degli ebrei si fa più drammatica, Moshe abbandona l’iniziale visione provvidenziale, giungendo a pentirsi di aver inutilmente confidato in un «miracolo» ormai impossibile.

Fa invece storia a sé, anche dal punto di vista religioso, l’esperienza del berlinese Peter Feigl, mandato in Francia dai genitori e battezzato per loro volere nel tentativo di sottrarlo alla persecuzione: il ragazzo diventa un cattolico fervente e non smette di pregare, e di comunicarsi, per chiedere il ritorno dei familiari. Delle quattordici vicende documentate nei Diari dell’Olocausto solo una manciata si conclude con la sopravvivenza degli autori. Ce la fa per esempio Klaus Langer, tedesco di Essen, tra i pochissimi a salpare con successo per il Medioriente.

Ma anche chi esce dall’inferno della persecuzione rimane ossessionato dall’orrore che si è dispiegato davanti ai suoi occhi. «Ho paura? – si domanda un’altra reclusa di Terezin, la praghese Alice Ehrman – Leggerò Faust e Isaia e Geremia e cercherò di dare meglio che posso una testimonianza che mi sopravviva. È questo che occupa i miei pensieri, non che il mondo si accorga di me».

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