giovedì 7 aprile 2016
Riconciliazione, la lezione del Sudafrica
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Ci sono parole che cambiano il corso della storia, parole capaci di deviare esistenze, di frammentare o di unire. Per quasi cinquant’anni il termine “apartheid” coprì di vergogna un regime, quello sudafricano, che aveva fatto della separazione razziale di Stato un dogma assoluto. Nel 1990 la liberazione di Nelson Mandela avrebbe potuto dare avvio a una polveriera. Intere generazioni di sudafricani neri avevano subito ogni sorta di deprivazione. Il sorriso di Madiba, però, non copriva alcun ghigno. Mandela sapeva già che per andare avanti il Sudafrica avrebbe dovuto puntare su due aspetti che niente avevano a che vedere con la vendetta. Verità e riconciliazione. Eccole le parole sulle quali il leader dell’African National Congress scommise per rifondare una nazione devastata.Nel 1996 quell’idea si trasformò in nella “Commissione per la verità e la riconciliazione” presieduta dall’arcivescovo anglicano Desmond Tutu. L’obiettivo era quello di fare luce sulle violazioni dei diritti umani commesse durante l’apartheid, ma attraverso un modello di giustizia inedito, fondato sull’ascolto di migliaia di vittime e sulla concessione dell’amnistia ai carnefici, condizionata a una piena trasparenza sui crimini compiuti. Un modello che compie vent’anni proprio in questi giorni e che oggi e domani verrà approfondito all’Università Cattolica di Milano. Tra coloro che condivideranno la propria esperienza c’è Robi Damelin. Attivista nel movimento anti-apartheid, Damelin emigra in Israele nel 1967, a ventidue anni. È qui che, nel 2002, il figlio David viene ucciso da un cecchino palestinese. Dopo la sua morte, Damelin vorrebbe incontrare il cecchino, ma non ci riesce. Decide così di tornare in Sudafrica, per conoscere coloro che nel suo Paese di origine sono riuscite a guardare in faccia i loro aguzzini. Il suo non è solo un ritorno in un Paese traumatizzato, ma un viaggio che attraverso il racconto sul male riesce a giungere al perdono. Oggi Damelin si dedica interamente al Parents Circle-Families Forum (“Forum delle famiglie in lutto”), un’organizzazione che guarda al modello sudafricano della riconciliazione per raggiungere una pace sostenibile anche altrove, a partire dal Medio Oriente.Cosa cercava nel suo viaggio in Sudafrica?Volevo scoprire quale lezione avrei potuto imparare dai familiari delle vittime dei tempi dell’apartheid, esplorando il significato del perdono. Ricordo una donna a cui era stata uccisa la figlia e che era riuscita a perdonare. Mi disse che il perdono, per lei, significava rinunciare al “diritto” alla vendetta. Poi ho conosciuto il mandante di quell’omicidio. Pensavo non mi sarebbe piaciuto, e invece si è rivelato un incontro straordinario. Mi ha detto: “Con il suo perdono questa madre mi ha liberato dalla prigione della mia disumanità”. Questo per me ha avuto un enorme significato».Mandela non cercò vendetta… «Mandela fu un eroe. Ma è altrettanto importante ricordare anche tutti gli altri che capirono che l’alternativa sarebbe stata un bagno di sangue. La riconciliazione era necessaria. E quindi sarebbe servita, dopo il raggiungimento della verità, un’amnistia. È stato un miracolo. Nessuno avrebbe creduto che sarebbe stato possibile. Ci fu chi disse che testimoniare cosa era successo non era abbastanza. Ma il rischio era un’alternativa violenta. Certo è vero che per un Paese non esiste una riconciliazione istantanea, è qualcosa che impiega generazioni a prendere definitivamente piede».Il perdono è una dimensione essenziale della riconciliazione?«Di certo non era un prerequisito della Commissione sudafricana: penso che sia un aspetto molto personale. In ogni caso le scuse sono un elemento cruciale per il perdono: senza ammissione dei crimini riconciliarsi è quasi impossibile».Quale lezione ci viene dal Sudafrica?«Che la separazione porta alla violenza. E se non conosci l’altro come fai ad avere empatia per lui? Se escludi delle persone dalla società queste diventeranno più estremiste. Considero quindi quello che è successo in Sudafrica un miracolo e penso: perché non potrebbe ripetersi anche in Israele e Palestina?»Oggi parole come “riconciliazione” e “perdono” sembrano fuori moda. Ha ancora speranza?«Non posso permettermi di rinunciare alla speranza: è il futuro dei miei nipoti. Come posso arrendermi? Una delle cose peggiori è la mancanza di comunicazione. La gente non si conosce. Nelle scuole israeliane se chiedi ai ragazzi se conoscono un palestinese ti risponderanno di no. Ma bisogna riscoprire l’umanità dell’altro. Perciò la gran parte del lavoro che facciamo con il Parents Circle è combattere la mancanza di conoscenza personale. Bisogna essere capaci di ascoltare, questa è una grande lezione che ci viene dalla Commissione sudafricana: consentire all’altro la dignità dell’ascolto».Nel mondo si moltiplicano invece gli slogan all’insegna della separazione..«Basti pensare al Medio Oriente, ma la separazione porta alla violenza. Nel Parents Circle abbiamo riunito seicento famiglie, metà palestinesi e metà israeliane. Stiamo anche lanciando un nuovo progetto (“Taking steps in the path of peace”) per incrementare il reddito delle donne palestinesi, perché sappiamo che quei soldi saranno spesi per l’educazione dei loro figli: il 15 giugno verrà presentato al Parlamento europeo. Ognuna delle nostre famiglie ha avuto una vittima nel conflitto e crediamo ci debba essere una cornice di riconciliazione che faccia parte di un qualsiasi futuro accordo politico. Perché senza la componente della riconciliazione non ci potrà mai essere pace, ma solo l’ennesimo e instabile cessate il fuoco».
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