mercoledì 22 febbraio 2012
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Già al momento dell’imbarco tutto congiura a rendere estremamente amaro il distacco dell’emigrante, un pover’uomo che trascina faticosamente le sue poche masserizie, un disperato che osti e locandieri dei vicoli attorno al porto hanno spennato per un minestra, un pezzo di pane, un miserabile giaciglio sul quale trascorrere l’ultima notte a terra, un paria che la gente perbene della città segna a dito, guarda con diffidenza ed evita come fosse un appestato. Ospite inopportuno lui, ospiti altrettanto inopportuni la moglie e i ragazzini attaccati alla gonna di questa, e perciò gente da sfruttare senza scrupoli: quanti albergatori, sensali, mercanti di uomini (c’erano anche allora), procacciatori di documenti falsi e passeurs si sono arricchiti sulla pelle di migliaia di disperati in fuga dalla fame? Poi viene il momento del controllo delle carte, ultima formalità prima di salire sul vapore che farà rotta verso "la Merica", la terra promessa. Presenta il suo documento, l’emigrante. «Regno d’Italia - Passaporto per l’estero», c’è scritto. Generalità, bolli, timbri, firme, e un visto per conferma d’identità sottoscritto nientemeno che dal sottoprefetto: nell’Italia post-unitaria la burocrazia è già terribilmente sospettosa, agguerrita e opprimente. «Ah... Siete il Tal dei Tali», sghignazza il doganiere. «Vedo che un rapporto della Benemerita vi descrive simpatizzante socialista. Bene, bene... Andate, andate pure. Non fatevi più vedere, non sappiamo che farcene di persone come voi». Umiliazione e dolore nel viatico che riceve spesso l’emigrante che nel periodo a cavallo tra l’800 e il ’900 va a costruirsi un futuro e una esistenza nuova oltre oceano, nelle grandi città degli Usa (allo sbarco a Ellis Island il primo impatto sarà con doganieri e funzionari dell’immigrazione più arcigni, diffidenti e propensi all’irrisione di quelli italiani), oppure nelle infuocate terre del Brasile tropicale o nelle sconfinate lande argentine dove la vita non sarà meno dura che nelle campagne del Veneto o del Meridione. «Mamma mia dammi cento lire, che in America voglio andar...». Questa Italia che ha perduto - assieme alla memoria delle lire - il ricordo di essere stato il Paese che ha costretto 27 o forse 30 milioni di suoi cittadini ad incamminarsi penosamente lungo le strade del mondo, trova ora nel Museo dell’emigrazione inaugurato poche settimane fa al terzo piano del Museo del mare di Genova la possibilità di rivivere, attraverso un percorso di rigorosa documentazione storica, alcune tra le pagine più dolorose che hanno segnato lo scorrere dei decenni. Genova non per caso: il porto sotto la Lanterna ha registrato la più parte del nostro massiccio esodo. Immagini, testimonianze, episodi, tragedie, avventure e disavventure umane sono ricostruite in quaranta postazioni multimediali, molte delle quali interattive, che raccontano come le migrazioni abbiano inciso nel profondo la società italiana. Il visitatore del Museo ha così l’opportunità di "viaggiare" letteralmente assieme all’emigrante, quasi a braccetto con lui sulle rotte atlantiche. Si imbarca sulla nave, deposita il poverissimo bagaglio, le piccole sacche che sono tutta la sua fortuna, e accede ai dormitori della terza classe, ambienti ricostruiti fedelmente come potevano essere sui vapori di 100-120 anni fa: spazi angusti, due piani di cuccette, l’ansimare ossessivo e senza tregua del motore, l’atmosfera resa pesante da centinaia di fiati. E sì che le pubblicità delle compagnie di navigazione erano accattivanti: parlavano di «illuminazione elettrica», oggetto misterioso per i cafoni del Sud e i braccianti del Polesine, e garantivano alloggi «tutti con finestre». Appena oltre i dormitori i servizi igienici della terza, qualche lavandino e due gabinetti. «Un bagno ogni 1500 passeggeri di terza classe», scriveva De Amicis nel 1888. Non manca il refettorio, ma quantità e qualità del cibo dipendono dai capricci del cambusiere. Lo conferma una lettera del 1907: «Ventisette giorni di mare, sempre a patire la fame». Segue una testimonianza sconvolgente: «Mangiano come poveretti alle porte dei conventi, i piatti tra le gambe, il pezzo del pane tra i piedi». La ricostruzione museale presenta la cella di bordo riservata ai clandestini e ai turbolenti, sbarre robuste come quella di una vera prigione.La traversata è fatta di interminabili giorni di sofferenze, disagi, mal di mare, angosce, paure, malattie. Bisogna attendere il 1895 perchè su ogni nave sia imbarcato un medico, ma solo per le rotte oltre Suez e Gibilterra. Chi sta davvero male può arrangiarsi. Chi sta male, ad Ellis Island – in funzione da 1892 – sarà irrimediabilmente respinto, il suo sogno della "Merica" svanirà nelle nebbie e nei patimenti di un tormentato ritorno, né invidierà coloro che avevano scelto la destinazione Brasile. Il Museo, sulle tracce di una storia dimenticata, ripropone vicende che hanno coinvolto due milioni di italiani (veneti, lombardi, friulani, trentini) chiamati dai fazendeiros nelle piantagioni di caffé, viaggio gratis con tutta la famiglia. All’arrivo scopriranno di dover semplicemente sostituire gli schiavi neri, affrancati nel frattempo. Dalla fame alla schiavitù. Quello che secondo Pierangelo Campodonico, direttore del Museo, è un tentativo di far rivivere al visitatore il percorso migratorio di circa 30 milioni di connazionali, diventa per l’osservatore avvertito uno strumento di recupero e salvaguardia di una memoria della quale abbiamo voluto sbarazzarci in fretta, quasi vergognandoci di ciò che siamo stati ieri, un popolo di partiva con le carrette del mare dell’epoca per vincere fame, miseria e disperazione. Riconciliati con il passato, possiamo valutare con spirito diverso l’inversione odierna dei flussi migratori. Interessante appendice espositiva sono le foto di 40 anni di immigrazione in Italia scattate da Uliano Lucas, mentre a chiudere l’allestimento museale permanente «Memoria e migrazioni» è una barchetta di pochi metri, matricola tunisina SF 9493, un guscio di noce che c’è da chiedersi come abbia potuto approdare a Lampedusa l’8 febbraio 2011 quando il Paese africano era nel caos dopo la caduta di Ben Ali. Aveva a bordo 11 persone, ed è un mistero come potessero starci. Ma ormai eravamo, ormai siamo noi "la nuova Merica".
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