venerdì 22 gennaio 2021
Una squadra “spezzata” che diede molti talenti al calcio italiano da cui venne esclusa passando sotto la ex Jugoslavia. Storie di calciatori che hanno combattuto o vissuto il dramma della deportazione
L' Us Fiumana in una foto storica

L' Us Fiumana in una foto storica

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«I miei due eterni amori calcistici, il Grande Torino e l’Unione Sportiva Fiumana, sono scomparsi... Ma non sono mai morti, vivono qui dentro al mio cuore, perché il “calcio di poesia”, è la verità, non morirà mai». Così parlò Sergio Vatta, il migliore educatore di calcio giovanile (assieme a Mino Favini) italiano. Vatta, il maestro della “cantera granata” anni ’80-’90 – in cui, tra un Bobo Vieri e l’altro, lanciò in Serie A una sessantina di talenti del Torino – se ne è andato per sempre nel luglio scorso, a 83 anni. Ma mai aveva mai reciso il legame affettivo e le radici profonde che lo legavano alla sua Zara, e a quel destino di giovane esule istriano che riparò con la sua famiglia sotto la Mole. Nel suo vecchio “cuore Toro” sopravvisse anche il ricordo della “squadra spezzata” dalla guerra e dal totalitarismo: l’Unione Sportiva Fiumana, nata nel 1926 dalla fusione delle due compagini del Gloria e dell’Olympia. Una storia di piccoli eroi esemplari del pallone, che va dal 1918 al ’48 e che si può leggere nell’enciclopedico El balon fiuman. Quando su la torre era l’aquila (Litopress. Pagine 747. Euro 45,00), scritto da un puntiglioso “storico di cuoio”, Luca Dibenedetto. «Per quindici anni la Fiumana navigò in serie B, regalando al nostro calcio giocatori del calibro di Volk, il primo capocannoniere della Serie A a girone unico (1929-’30), i fratelli Varglien, Loik, e il “fuoriclasse assoluto”, Mihalic. Ben 16 scudetti, 11 della Juventus e 5 del Torino, furono conquistati grazie a quei campioni fiumani che avevano militato nelle due torinesi», ricordava con orgoglio Vatta. Un trionfo, fino a quando la guerra non li strappò portandoli al fronte o costringendo, calciatori e “cittadini-tifosi” istriani a fuggire in Italia. Smistati, nei 109 campi profughi sparsi per la penisola, dove non sempre accolsero fraternamente i loro connazionali che fino ad allora avevano vissuto placidamente sull’altra sponda dell’Adriatico.

La partita d’addio al calcio italiano, la Fiumana la disputò il 14 marzo del ’44, e con rabbia e con amore per il balon tricolore, finì con un perentorio 4-1 ai danni del Vittorio Veneto. Città che rimanda ad altre epiche battaglie, quanto quelle che attendevano la generazione dei Quaresima e tutti quei calciatori colpiti dalla Seconda Guerra Mondiale. Giova sempre ricordare che tra i sei milioni di vittime del nazifascismo, il “martirologio sportivo” ha causato la morte di 60mila atleti, di cui 220 di alto livello. E da quel marzo del ’44 per molti dei ragazzi di Fiume iniziò un altro torneo, in cui l’avversario da battere era lo spettro nazifascista. Il campo di calcio divenne di colpo quello di concentramento, il lager. E a farne la dura esperienza fu anche lo “straniero”, il “Missile” di Vicenza Bruno Quaresima. Vicentino classe 1920, figlio del popolo del Casermone, a 16 anni era già un talento biancorosso, pronto per il debutto in prima squadra che avvenne in serie C nella terribile stagione delle leggi razziali, 1938-’39. L’anno dopo il Vicenza lo diede in prestito alla Fiumana e qui, nella città dalmata, oltre al gusto per il pallone scoprì quello ancor più dolce dell’amore per Carlotta Gentile. La compagna di una vita Carlotta, alla quale Bruno rischiò di dire addio quando con una rappresentativa fiumana prese parte alla “Coppa Deutscher Berater”. La sfida “amichevole”, sì fa per dire, contro una selezione di soldati nazisti lo vide vincitore e protagonista assoluto, come sempre, ma l’eccesso di esultanza a fine partita gli costò l’accusa di «nemico».

Per lui, il rastrellamento e poi la deportazione a Mühldorf am Inn. Nel sottocampo di Dachau, Quaresima venne sottoposto ai lavori forzati. Destino tragico per Bruno, analogo a quello dei suoi compagni della Fiumana: Alceo Lipizer, classe 1921 e Nevio Scalamera (1924, cresciuto nel club Magazzini Generali di Fiume), tutti deportati dopo la retata dell’8 novembre 1944, avvenuta davanti agli uffici della O.T. Zehtmayer, a Sussak. Ma sei mesi dopo, quando i tedeschi abbandonarono il campo, Quaresima e gli altri riuscirono a fuggire con mezzi di fortuna per fare ritorno a Fiume. Lipizer, «uno dei primi attaccanti esterni del tridente offensivo che nell’anteguerra sapeva crossare in corsa», a guerra finita venne acquistato dalla Juventus dove restò dal 1945 al ’47 per poi passare al Como e andare a chiudere alla Reggiana. Quaresima tornò a segnare a raffica nel suo Vicenza, e un giorno si presentò elegantissimo il “Balilla”, il due volte campione del mondo Giuseppe Meazza che per conto dell’Inter era andato a trattare l’acquisto del “Missile”. Affare fatto: al Vicenza andarono la cifra record, per allora, di 22 milioni di lire, e 12mila lire di ingaggio annuo a Quaresima che però, pare li spese quasi tutti in taxi per farsi riaccompagnare tutte le volte che poteva da Milano a casa, in Veneto. Così dopo quella breve annata nerazzurra vissuta in tandem offensivo con Benito Lorenzi, alias “Veleno”, Bruno riprese la strada di Vicenza per una carriera che da lì in poi sarebbe stata in tono minore. Carriera interrotta anzitempo per Icilio Zuliani, classe 1909, che fece la sua parte nella Fiumana degli anni ’30, ma lo smaccato antifascismo gli costò il confino a Manfredonia e poi la deportazione. Sbattuto in un vagone merci chiodato, finì i suoi giorni nel campo di Buchenvald dove ad accoglierlo trovò la scritta minacciosa: «A ciascuno il dovuto». Con il «n.67399» tatuato al braccio e il triangolo rosso del prigioniero politico, Icilio aveva resistito fino alla liberazione delle truppe alleate, 1’1 aprile 1945, ma sfinito dagli stenti patiti («non riusciva più a mangiare e la dissenteria lo travolse») morì, il 9 maggio ’45.

Anche suo fratello, Duilio Zuliani, non rivide più Fiume, volò via per sempre nel 1942 e il suo nome figura tra i circa 70mila militari italiani che si immolarono nella glaciale Campagna di Russia. Tra i caduti di quella sporca guerra ci fu anche Stefano Paulinich, sesto di una dinastia di sette fratelli (una sorella Maria) e gli altri tutti calciatori fiumani che militarono tra il Gloria e l’Olympia. Si trattava di Dante, Arpad, Ladislao, Zeffirino e Mario Paulinich. Stefano aveva risposto alla chiamata alle armi arruolandosi nel 69° Battaglione camice nere e rimase ucciso durante un agguato dei partigiani comunisti, il 2 gennaio 1942, aveva appena 36 anni. I suoi nipoti, i figli di Arpad, Ottorino detto “Osso” per via della sua magrezza, e il fratello Claudio, giocavano nella Fiumana, quando nel novembre del ’44, a Trieste, vennero catturati dalle SS e deportati a Dachau. La scamparono, e appena tornati a Fiume rimisero gli scarpini ai piedi per giocare nei tornei locali. Entrambi poi accettarono all’offerta della Cremonese, ma mentre Claudio si divideva tra il calcio e l’ufficio della locale Cassa mutua, “Osso” invece con la maglia grigiorossa si fece un nome e da Cremona spiccò il volo verso la Serie A con l’Udinese: stagione di massima serie 1950-’51. Non aveva il fisico per arrivare in Serie A, ma l’eleganza di Giovanni Maras, detto “Ferenc” pare fosse inarrivabile. Questo condottiero della difesa è ancora insuperato anche per il record di presenze: 229 gare disputate con la Fiumana. Solo le raffiche dei nazifascisti potevano fermarlo e ci riuscirono, lassù tra i boschi balcanici del monte Risnjak. Era il 31 ottobre del 1943 quando Maras morì, a 37 anni. Quella stessa estate del ’43, il 19enne talentuoso Edoardo Mandich era passato dal Littorio Fiume alla Pro Patria, ma gli arrivò la chiamata alle armi: arruolato nella Regia Marina. Ed era a Venezia, quando l’8 settembre la Gestapo lo inseguì per i calli della città di San Marco. Braccato finì anche lui nel lager di Hildesheim, nella bassa Sassonia.

Il prigioniero “Edi” da marinaio e calciatore in ascesa si ritrovò a vestire la tuta del “lavoratore coatto” nella fabbrica interna al campo: lo zuccherificio in cui si produceva glicerina per l’arsenale nazista. In quell’inferno, in cui rimediava calci e sputi persino dai bambini tedeschi assunti e sfruttati nella fabbrica, il deportato Mandich trovò un angolo di paradiso: conobbe la donna della sua vita, la prigioniera polacca Marianna Walkowska. Alla liberazione restarono ancora uniti a Hildesheim e insieme collaborarono con gli alleati per allestire ospedali da campo. Edi e Marianna tornarono in Italia da sposati, ricominciando a vivere in Umbria, a Campello sul Clitunno, dove li accolse la sorella del calciatore, Betty. Mandich pesava 40 chili e anche per mangiare ripartì dal calcio, con il Pontefelcino che, non a caso, lo pagava «a pane e olio». Si rimise in forza Mandich e divenne il n. “10” della Us Lavoratori Terni e a 25 anni la sua rinascita, anche sportiva, avvenne nelle fila della Ternana allenata dall’ex campione del mondo del ’38, Gino Colaussi. Molti di questi ragazzi, anche quelli che “sconfissero” il lager, non rimisero più piede sul suolo natìo, ma l’epopea della Fiumana fece il giro del mondo, arrivando fino in Australia. Ad Adelaide, con i bianconeri della “Juventus” chiusero le loro “vite da mediani” Nevio Scalamera e Nereo Burattini: insieme vinsero tre scudetti australiani, ma cucito al petto portarono, fino alla fine dei loro giorni, la stella dell’Unione Fiumana.

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