martedì 30 aprile 2013
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«Anoi fu dato in sorte questo tempo». Sillaba ancora le terribili parole con cui Primo Levi cercò di raccontare il dramma della gioventù ebraica italiana nella tempesta delle persecuzioni, della Shoah e della Resistenza. E le sillabe sono pietre e il maldestro tentativo di sminuire, di appannare il ruolo di quei ragazzini partigiani che salvarono l’onore dell’Italia torna subito alla sua dimensione reale, quella della provocazione di chi al protagonismo è disposto a pagare qualunque prezzo. Oggi, lontano come non mai dalla sua Torino, nascosto in un rifugio dove nemmeno i più volenterosi biografi di Primo Levi riescono a scovarlo, creduto morto o disperso dai tanti che non sanno più nulla di lui, Guido Bonfiglioli accetta di parlare solo dopo lunghe insistenze. Partigiano con Emanuele Artom, Primo Levi e gli altri, è forse il solo di quella meglio gioventù a non averci lasciati, ma la sua scelta è il silenzio, un silenzio che solo un moto d’indignazione riesce oggi a interrompere brevemente.Professor Bonfiglioli, lei è stato un caro amico di Emanuele Artom, di Primo Levi, un protagonista della Resistenza, poi un fisico brillante, un docente universitario apprezzato sulle due sponde dell’Oceano, un romanziere coraggioso ancora da scoprire. Eppure questa intervista si è resa possibile solo dopo interminabili tentativi, grazie a un incontro quasi clandestino in una sperduta località di montagna che richiama la sua esperienza di clandestinità. Eppure in un mondo in cui tutti parlano troppo lei ha scelto il silenzio. Perché? «Primo nei suoi libri non ha raccontato solo la sua storia, ma anche la vicenda di tutta la nostra generazione, di quei ragazzi ebrei che le leggi razziste del 1938, le persecuzioni e tutto quello che ne è seguito hanno legato per sempre. Non ho altro da aggiungere, se non la mia diffidenza e la mia denuncia per quello che è diventata l’Italia di oggi».Sa che proprio in queste settimane vi sono storici che hanno voluto scavare proprio nella breve vicenda di Primo Levi partigiano, forse nella speranza di fare sensazione, secondo alcuni per gettare un’ombra sulle scelte drammatiche che toccarono a voi allora?«Lo so, e lo trovo penoso. Rileggere la storia per adattarla ai propri comodi, alle esigenze contemporanee, per costruire tesi, seminare sospetti. Non lo posso accettare».Quando e come incontrò Primo Levi per l’ultima volta prima della sua cattura e della deportazione?«Ci siamo visti nel dicembre del 1943 al Col de Joux, dalle parti di Amay sopra Saint-Vicent, dove aveva trovato un alloggio assieme a Luciana Nissim e Vanda Maestro. Eravamo due ragazzi di 24 anni, non certo dei combattenti professionisti. Ma ognuno di noi aveva preso la sua strada. La nostra conoscenza del territorio e di quelle montagne fu probabilmente determinante nel segnare il destino. Ormai avevo fatto la mia scelta e militavo nel grande nucleo di Giustizia e Libertà che controllava il territorio fra la riva destra della Dora e il confine con la Svizzera. Cercai di fargli capire che restare sulla riva sinistra della Dora, per di più in una località facilmente raggiungibile con gli automezzi, era una grande imprudenza, ma non riuscii a convincerlo. Pochi giorni dopo fu catturato e accadde quello che milioni di lettori di Se questo è un uomo conoscono bene».Oggi si dice che in quelle settimane nei territori controllati dai partigiani avvennero oscuri episodi, esecuzioni sommarie, regolamenti di conti. «Certo che avvennero, e come avrebbe potuto essere altrimenti? In mezzo ai combattenti, nella confusione generale si trovavano malfattori, delatori, infiltrati di ogni genere. I partigiani dovevano necessariamente mantenere l’ordine e soprattutto salvaguardare la fiducia della popolazione locale. Ricordo che furono emesse vere e proprie condanne e nel caso di noi Gl, nonostante le difficoltà, si trattò di regolari processi che impegnarono altissimi magistrati italiani entrati nella Resistenza. Ma Primo con queste storie non aveva proprio nulla a che vedere. Non era un ideologo e non era un estremista. Era un ragazzo pacifico, sensibile e delicato che gli eventi avevano gettato in un inferno. Ciononostante quando lo incontrai era sereno e per quanto riguarda questi aspetti terribili della lotta partigiana lo trovai per quanto possibile sereno anche quando lo rividi a Torino nel 1945. Alla prova dei fatti, se furono traditi così come lo furono, non si erano nemmeno difesi abbastanza».Lei fu molto vicino a Emanuele Artom. La recente riscoperta dei suoi scritti (“Diari di un partigiano ebreo”, Bollati Boringhieri) ha consentito di comprendere meglio la grandezza di questo martire della lotta per la libertà. Ma con Artom è stato anche coautore di “Elena o della parodia”, uno straordinario libretto satirico che si temeva fosse andato perduto e che recente recentemente l’Archivio Terracini di Torino ha voluto ristampare in anastatica. «La cattura e l’assassinio di Emanuele nel 1944 non fu solo un’atrocità indescrivibile, ma segnò anche la perdita incolmabile di un grande leader dell’ebraismo italiano. Lui, che combatteva con le brigate in Val Pellice e in Val Germanasca, era arrivato alla lotta partigiana grazie alla sua consapevolezza ebraica e non come noi nella disperazione della fuga. Proprio alla vigilia della terribile stagione delle persecuzioni, nel 1937, avevano fatto stampare un nostro libretto di scherzi letterari. Costava otto lire, lo avevamo venduto su un banchetto a un mercatino del libro che si teneva proprio vicino alla sinagoga. Emanuele con suo fratello Ennio, che morì in un incidente di montagna nel 1940, e i loro genitori Amalia ed Emilio, che furono dei matematici geniali e straordinari, sono state presenze determinanti nella mia vita di ragazzo. Con loro tutto era grande e drammatico. La montagna che tanto amavamo proteggeva le nostre vite e le minacciava al tempo stesso».Lei è l’autore di testi scientifici su cui hanno studiato intere generazioni di ricercatori, soprattutto in Sudamerica, dove ha trascorso un capitolo importante della sua vita dopo la guerra. Dopo quella parodia letteraria scritta a quattro mani con Artom, passata la tempesta della guerra, le è rimasta ancora la voglia di fare letteratura? «Nella stagione di Chernobyl ho scritto un romanzo (<+corsivo_bandiera>Raggi gamma e chili verde<+tondo_bandiera>) così come poteva scriverlo uno scienziato, ma Primo l’aveva accolto entusiasticamente pochi mesi prima di morire. L’editore che avevamo preso in considerazione era un nostro vecchio compagno partigiano, Giulio Einaudi. Che però quando scoprì il nome dell’autore mise un veto e non se ne fece nulla».Perché?«Non so, forse una sua piccola ripicca perché fra di noi durante la guerra partigiana ci fu uno screzio».Voi ragazzi del liceo D’Azeglio di Torino siete stati un gruppo tutto speciale, ne eravate allora consapevoli? Nel racconto “Un lungo duello” raccolto in “L’altrui mestiere” Primo Levi lascia intendere il clima in cui avete vissuto alla vigilia della tragedia. Nel 1934, tutti in prima liceo, le pulsioni, la scoperta della grande cultura, le rivalità, le ragazze, l’eterna gara dell’intelligenza e della bellezza. E quel compagno di scuola che da una burla a una sfida, durante la lezione di scienze naturali con un docente terribilmente miope e svagato, finisce fra l’ammirazione generale per spogliarsi e restare in piedi sul banco come uno sfolgorante, sfacciato monumento alla gioventù. Quel ragazzo che Levi chiama Guido, lei forse lo riconosce?«Io no, non so proprio chi sia. Il mondo è pieno di persone che porta questo nome, anche lei evidentemente ne sa qualcosa. E adesso basta con queste storie. Lasciatemi tornare nell’ombra».
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