domenica 6 marzo 2016
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«D’Antoni e Meneghin, sono i miei genitori cestistici. Ma i più grandi coach della mia vita sono stati mia madre e mio padre. Che spero tutti abbiano la fortuna di avere, perché io sarò anche all’antica, ma la famiglia la concepisco con mamma e papà». Gli anni passano, ma la saggezza di Riccardo Pittis è la stessa di quando stava in campo. Parliamo del giocatore italiano di pallacanestro più vincente di sempre dopo il grande Dino Meneghin (12 a 7 nel numero di scudetti vinti). Un passaggio di testimone visto che furono compagni di squadra in quell’Olimpia Milano da sballo targata anni ’80. Tra le gloriose “scarpette rosse” che oggi festeggiano l’ottantesimo compleanno è entrato così anche questo ex baby prodigio milanese, ala di 203 centimetri, classe 1968, che oggi è volto noto come commentatore televisivo. Due sole le canotte vestite in carriera (Milano e Treviso) con cui ha lasciato il segno per quasi vent’anni, dal 1985 al 2004, sui parquet italiani e stranieri. Cresciuto nel vivaio dell’Olimpia vi ha giocato fino al 1993, divenendo anche capitano e mettendo a segno 2570 punti. Una bacheca da paura anche solo con i successi in maglia biancorossa: quattro scudetti (1985, 1986, 1987 e 1989), due Coppe dei Campioni (1987 e 1988), una Coppa Italia nel 1987, due Coppe Korac (1985 e 1993) e una Coppa Intercontinentale nel 1987. Ha esordito in serie A con Milano a soli sedici anni. «Gennaio 1985. Si giocava ancora al Pala San Siro, fu l’ultima partita di basket in quell’impianto che sarebbe crollato dopo pochi giorni. Colpa di un’eccezionale nevicata e difatti ricordo chiaramente anche come ero vestito quel giorno. Arrivai al palazzetto con delle Timberland enormi... Meneghin mi rifilò subito un soprannome: “scarpantibus”. L’altro che poi mi diedero fu “acciughino”. Ancora adesso mi fa sorridere perché in effetti ero davvero tanto magro allora: pesavo non più di 87 kg per 203 cm». Detiene tuttora il record assoluto delle palle recuperate in Serie A:1870. Avrebbero potuto chiamarla Arsenio Lupin se non fosse già stato affibbiato a un’altra leggenda: Mike D’Antoni... «Lui è stato il vero maestro. Era mio idolo già prima di diventare compagni di squadra e poi mio allenatore. D’Antoni e Meneghin su tutti. Ma ho avuto la fortuna di giocare con grandi campioni come Bob McAdoo e Joe Barry Carrol, i più forti stranieri di sempre a calcare i parquet italiani». Lei è stato una bandiera non solo di Milano, ma anche di Treviso. «A Treviso ero nel pieno della carriera, ma lì non ho fatto altro che mettere in pratica tutto quello che Dan Peterson e i grandi dell’Olimpia mi avevano insegnato. Poi io sono nato a Milano anche cestisticamente. E sono orgoglioso di far parte di questa grande storia. Ho iniziato con l’Olimpia a 7 anni, sono nato al Pala Lido. E come potrei dimenticare il mio primo scudetto o la Coppa Korac da capitano del 1993. Brucia solo lo scudetto perso con Caserta nel 1990, ma indelebili la conquista delle due Coppe Campioni». Rimpianti per non aver tentato l’avventura Nba? «No. Sono soddisfatto per una carriera lunga e fortunata, senza infortuni. Mi manca forse solo l’Olimpiade, ma per quanto riguarda l’Nba c’è stato un forte interesse reciproco con Portland nel 1991. Se però in quel periodo faceva panchina lì un certo Drazen Petrovic...Non aveva senso andare in America per non giocare mai». C’è tanta differenza tra il suo basket e quello odierno? «Sono due periodi diversi. Ma certo ai miei tempi l’80% delle squadre di serie A erano formate da giocatori italiani. Oggi è il contrario, abbiamo troppi stranieri. E manca quell’attaccamento alla maglia che c’era allora». In maglia azzurra ha vinto due medaglie d’argento agli Europei (1991 e 1997). Cosa dobbiamo aspettarci dalla Nazionale di coach Messina? «All’ultimo Europeo non abbiamo avuto molta fortuna. Cre- do che non ci manchi molto per poter vincere presto. Abbiamo Gallinari che è il più forte giocatore italiano e talenti come Amedeo Della Valle». Dove può arrivare l’Olimpia quest’anno? «La vittoria in Coppa Italia può aprire un ciclo vincente. Per lo scudetto è super favorita non vedo altre squadre e anche in Eurocup può dire la sua. L’arrivo di Repesa in panchina ha cambiato completamente l’atteggiamento difensivo che è fondamentale per vincere». A proposito di coach, i più grandi per lei rimangono Elena e Sergio... «Sì, mia madre e mio padre. Loro sono i primi insegnanti, poi vengono gli allenatori. E ai miei genitori devo tutto. Purtroppo ho avuto la sfortuna di perdere mia madre a 24 anni. Papà lavorava, lei per me era una figura di riferimento». Il resto l’ha fatto il suo carattere. Nel pieno della carriera per problemi al tendine della mano destra fu costretto diventare tiratore “mancino”. Con ottimi risultati. Chi ha giocato a basket sa quanto sia difficile. «Credo dipenda dal fatto che non mollo mai. Lo dico anche oggi da formatore ai ragazzi: non esiste l’ultima spiaggia. C’è solo la penultima. Poi come diceva Tommaso Moro: “Che io possa avere la forza di cambiare le cose che posso cambiare, che io possa avere la pazienza di accettare le cose che non posso cambiare, che io possa avere soprattutto l’intelligenza di saperle distinguere”». Per la sua intelligenza l’han sempre considerata un secondo allenatore in campo. Sta pensando a un futuro in panchina? «No. Mi basta il ruolo di commentatore televisivo perché mi tiene legato al mondo che ho vissuto in una veste defilata. Il basket per me è giocare: non sono mai riuscito a vedermi allenatore o dirigente. Il telecronista poi è un hobby, il mio vero lavoro oggi è quello di formatore mental coach. Dopo il basket ho trovato quel che volevo far da grande».  Lei insiste sul rimanere “bambini” anche da adulti... «Ogni tanto sforziamoci tutti di guardare la realtà con gli occhi di un bambino. Spesso diamo tutto per scontato e dimentichiamo ciò che di grande abbiamo. Meravigliarsi invece è il vero segreto. Da appassionato di etimologia ho scoperto che entusiasmo si traduce alla lettera come “avere Dio dentro”. Ci sono quelli che pensano di poter controllare anche l’alba e il tramonto. Mentre penso che siamo dentro qualcosa di più grande di noi. Lasciamoci stupire anche dalle cose invisibili. “La vita è meravigliosa”, come dice il titolo del film di Frank Capra. E se Dio vorrà preservarmela sarà un bel regalo».
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