sabato 11 luglio 2020
Estate 1980, “Ma quale idea” sbanca, 12 milioni di copie vendute nel mondo. «Dovevo fare il medico, non ho capito più niente... L’amore e la fede mi hanno salvato»
Pino D’Angiò classe 1952, in uno scatto recente. Nell’estate 1980, il tormentone “Ma quale idea”

Pino D’Angiò classe 1952, in uno scatto recente. Nell’estate 1980, il tormentone “Ma quale idea”

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Ci sono voluti due anni per rintracciare Pino D’Angiò. Tempo fa, Alessandro Dell’Orto (giornalista di “Libero”) l’aveva scovato nel suo rifugio amalfitano, a Conca dei Marini, e inserito nella preziosa raccolta di ritratti, Soggetti smarriti (Wlm). Poi si erano perse nuovamente le tracce, fino all’avvistamento, recente, da parte dell’esperto musicale Gabriele Bojano (“Corriere del Mezzogiorno”) che ci ha messi in contatto con un “Principe”, ingiustamente dimenticato, del tormentone. Estate 1980: alla radio, nei jukebox in spiaggia e nelle discoteche impazzava il refrain di Ma quale idea. «Sulla pista indiavolata, lì per lì l’ho strapazzata, l’ho lanciata riafferrata, senza fiato l’ho lasciata!!! Tra le braccia m’è cascata, era cotta innamorata... Si dice così, oh yeah». Sì, ebbene, cantava così D’Angiò. E lo faceva in un modo unico, mai visto prima da noi ragazzi degli anni ’80. Sguardo languido, aria da smargiasso, da playboy di periferia, sigaretta in bocca, giacca con spalline imbottite e cravatta scura, slasciata. Con piglio sicuro del Fred Buscaglione campano (Pino D’Angiò, al secolo Giuseppe Chierca da Pompei, classe 1952), si presentava così alla Mostra Internazionale di Musica Leggera, a Venezia. Ed è lì, sulla Laguna, che scoppiò la bomba, con schegge impazzite di notorietà che arrivarono fino in Germania, passando per Francia e Spagna. «E in Sudamerica Ma quale idea andava ancora più forte che in Europa», dice con la voce bassa e come sempre roca, dalla casa romana dove lo staniamo. L’anno dopo, l’81, plana al Festivalbar con un Un concerto da strapazzo e poi sbarca di nuovo a Venezia e si porta a casa la “Gondola d’Argento” con Fammi un panino. Ma altro che panini. Quelli erano anni di cene di gala a caviale e champagne, alberghi di lusso, viaggi intercontinentali e ospitate radiotelevisive in ogni studio del mondo. “Pino l’italiano” diventa una voce e un personaggio da copertina con 12 milioni di copie vendute (2,5 milioni in Italia) grazie a quel tormentone che è la sua rendita: «Frutta ancora 20-30mila euro l’anno».

Quarant’anni dopo, il titolo della sua storia musicale potrebbe essere “Una buona idea”. Ma come le venne in mente quella canzone?

Era un pezzo da cabaret, scartato da tutti. Studiavo Medicina a Siena e durante la settimana per racimolare qualche soldo mi esibivo al “Pozzo di Beatrice”. Era il “Derby” fiorentino dove hanno debuttato anche i “Giancattivi” (Nuti, Cenci e Benvenuti) e il compianto Carlo Monni, ed è li che cominciai anch’io a improvvisare e canticchiare cose scritte da me.

E con l’Università come andò a finire?

A Siena non passavo gli esami e così andai a laurearmi a Milano, e lì ci fu l’incontro con Enzo Leoni. Non sapevo che fosse il produttore di Mina. Enzo mi chiama per un provino, gli faccio ascoltare Libero scusi ma non successe nulla... Poi tirai fuori Ma quale idea e da quel momento non ho capito più niente. Via il ca- mice da medico, un volo per il Brasile... mio padre spaesato che provava a rintracciarmi telefonicamente per capire in che direzione stessi andando. Ma non lo sapevo neppure io. Oggi so che è stato tutto un gioco e che grazie a quella canzone ho imparato tre lingue e conosciuto il mondo viaggiando in prima classe senza pagare.

Il suo papà “spaesato” era l’ingegnere che da bambino lo portò con sé a vivere in America...

È lì che mi è entrato dentro il funky che mi porto ancora addosso come una seconda pelle. Il primo 45 giri comprato si è perso in un baule nel viaggio di ritorno dagli Usa. Era Let’s twist again di Chubby Checker. Mai ascoltato: lo tenevo solo in mano e osservavo i solchi del vinile e sapevo che dov’era più scuro lì c’era più rumore, entrava la batteria. Tornato in Italia – a Salerno – Pregherò di Celentano e Eri piccola così di Buscaglione divennero inconsapevolmente le future basi di Ma quale idea.

Brano antesignano del genere rap.

Se Celentano con Prisencolinensinainciu-sol ha cantato il primo rap della storia, quando ancora gli americani dei ghetti non sapevano cosa fosse, possiamo dire che Ma quale idea è stato il secondo storico rap mondiale.

Una medaglia al petto del “rapper” D’Angiò, che però dice, citiamo sue parole, «quello del cantante è un mestiere senza dignità». Conferma?

Premetto, nutro una profonda stima per i cantautori. Primo fra tutti Lucio Dalla che coniugava testi e musica in maniera sublime. Adoro De Gregori e il primo Fossati quando lo ascoltavo solo io e pochi altri. Con Gianni Morandi siamo amici e lo considero un vero musicista: quando era uscito di scena tornò a studiare il violoncello e si è diplomato al conservatorio....

La prende larga, cosa non le piace dell’ambiente musicale?

Considero la parola «cantante» essenzialmente come il participio presente del verbo cantare. È l’unico mestiere declinato, colui che sta cantando. Ma appena scende dal palco e smette di cantare non è più cantante. E poi per cantare basta un microfono e nessuno studio, chiunque può farlo...

Ma se tutti possono fare il cantante non è mica da tutti scrivere una canzone per Mina, come Ma chi è quella lì.

Anche quella nasce da una bocciatura. L’avevo scartata io stesso, non mi piaceva. Poi un giorno mi chiama Massimiliano Pani, il figlio di Mina, e mi chiede se ho un brano inedito per il nuovo album di sua madre. Gli mando il mio “scarto” e quello mi telefona: “Pino, mia madre è impazzita... vuole registrarla immediatamente!”. Mina la fece diventare Ma chi è quello lì. Dopo averla ascoltata pensai che forse era meglio che la incidessi anch’io.

Durante la pandemia sappiamo che è tornato in studio. Ma perché così tanti anni di silenzio?

Ho avuto un cancro alla gola e sono stato operato quattro volte. Non potevo più cantare... Per i medici ero spacciato, ma gli ho rovinato la statistica – sorride –. Ho canzoni pronte da qui al 2028. Prima del lockdown avevo ripreso a cantare e a girare per serate, anche all’estero. Dove mi chiamano io vado.

La chiamano anche come il padre della “Trance Music”. Perdoni, un genere a noi ignoto.

A dire il vero ne so poco anch’io – dice divertito –. È la storia più comica della mia vita. Stavo in Belgio dal mio amico editore Philippe, mi fa sentire un brano orrendo e mi chiede se posso inventare qualcosa per abbellirlo. Butto giù all’impronta un “riffetto” vergognoso e comincio a starnazzare per dieci minuti: «The age of love». Finita la registrazione dico a Philippe: ok è tua, ma ti prego, non mettere il mio nome su questa cosa... Beh, errore madornale, è diventato un altro tormentone internazionale, per di più un caposaldo della “Trance Music”.

Corsi e ricorsi paradossali, come quando arrivò all’apice e poi si è defilato... o svenuto, come accadde al Festival di Sanremo dell’89...

Io a quel Festival non ci volevo andare e siccome mi stavano eliminando pensai che l’unica cosa che potessi fare per salvare la faccia fosse quella di accusare un malore. Però prima telefonai a mia madre per assicurarla: «Mamma tranquilla, tutto ciò che vedrai e sentirai alla tv è una farsa». Una bufala architettata assieme ad Adriano Aragozzini che, con i discografici, mi aveva costretto a prendere parte a quel Sanremo.

Questa storia a suo figlio l’ha mai raccontata?

Oggi gli basta andare su Youtube... Quando Francesco era piccolo e mi divertivo un mondo a fare il papà a tempo pieno mi accorsi che un giorno era giù di corda: a scuola gli avevano dato il classico tema “parla della tua famiglia” e questo povero bambino scrisse che i suoi non erano sposati e il papà di mestiere faceva il cantante... Un trauma – sorride –. Ma l’ha superato brillantemente. Per fortuna non ha scelto di fare il cantante, fa un mestiere che non sapevo neppure esistesse, il “lobbysta”: cura i rapporti tra le aziende e gli enti governativi, insomma interviene affinché le leggi non danneggino le industrie. Questo è quello che ho capito.

E della vita cosa ha capito?

Che senza una famiglia, l’amore di una moglie – Maria Teresa, che mi sopporta dal ’79 – e la fede non vai da nessuna parte. E la fede piena la vivo quando torno a Pompei al Santuario della Madonna in cui da piccolo andavo con mia nonna. Quando entro in quella chiesa, chiudo gli occhi e riascolto la voce di nonna che canta, dolce: «Salve o Regina...». Della vita ho capito anche che i momenti peggiori non sono quelli in cui sei prigioniero su un letto d’ospedale, ma quando sei confuso, arrabbiato con il mondo e hai perso la gioia e la speranza nel futuro. Allora devi metterti a pregare. E la preghiera che sgorga dal cuore vale tutte le canzoni del mondo».

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