domenica 11 luglio 2021
Il maestro, neodirettore della London Symphony, oggi chiude il Festival di Spoleto dirigendo la sua orchestra di Santa Cecilia di cui resterà “emerito”: «Il futuro? Lavori di De Sabata e Ponchielli»
Il direttore d'orchestra Antonio Pappano, 62 anni

Il direttore d'orchestra Antonio Pappano, 62 anni

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Per chi farà il tifo, stasera, per gli azzurri o per i bianchi? Se la cava così: «Per Juventus. Ma il calcio non c’entra, è il poema sinfonico di Victor De Sabata, che dirigerò nella prossima stagione ». Difficile schierarsi per Antonio Pappano, 62 anni, nato in Inghilterra da genitori italiani, cittadino britannico e cittadinanza italiana. Questa sera dirige il tradizionale concerto in piazza Duomo per la chiusura del 64° Festival di Spoleto. Con lui, l’orchestra di Santa Cecilia della quale è direttore principale da 16 anni. I numeri realizzati in questo periodo sono pressoché incredibili per un’orchestra italiana: 31 incisioni discografiche, decine di tournée, le presenze nelle principali sale da concerto internazionali. Nel 2024 è previsto il debutto a Salisburgo con tre concerti e un’opera, «forse La Gioconda di Ponchielli, che in quel Festival non è mai stata rappresentata. Stiamo definendo il cast e cercando un regista, bel problema». A quel tempo, Pappano sarà direttore principale della London Symphony Orchestra, mantenendo il titolo di 'direttore emerito' a Santa Cecilia. Suo possibile successore sul podio romano il quarantenne Jakub Hruša, ceco, appena nominato 'direttore ospite principale'. Per la vastità e la curiosità nelle scelte del repertorio, l’affettività nel rapporto con il pubblico, l’assenza di tensioni con l’orchestra, il suo porsi in modo energicamente positivo, il fenomeno Pappano merita di essere indagato da chi ancora crede in un futuro sostenibile per la mu- sica classica.

Maestro, vuole tentare un bilancio di questo lungo periodo di lavoro all’Accademia di Santa Cecilia?

La mia reputazione quando sono arrivato era quella di direttore d’opera e proprio per questa ragione ho voluto investire in un ente sinfonico. Insieme abbiamo dovuto creare qualcosa di personale, di non generico. Dico questo perché io non sono un italiano al 100%, i miei genitori sì, ma sento la musica come loro la sentono: il fraseggio, il cantabile, i colori, la passione, il temperamento teatrale e qui ho trovato tutto questo. Il più grande regalo che mi ha dato questa orchestra è la grinta, la forza, il carattere, il coraggio quando ci siamo trovati sui più importanti palcoscenici di tutto il mondo. L’orchestra è cresciuta e io sono cresciuto con lei. Non dimenticherò mai il nostro debutto a Vienna con la Prima Sinfonia di Mahler, il successo con l’Ottavadi Bruchner a Dresda. I programmi in cui abbiamo suonato Rachmaninov, Sibelius, Bizet, Beethoven, Richard Strauss. Per un’orchestra italiana non è una cosa da poco. Insieme, e sto parlando anche del coro, abbiamo costruito qualcosa di veramente nostro.

Perché, a partire da fine Settecento, la grande tradizione della musica sinfonica italiana si è smarrita, è scomparsa?

Il fascino della voce è come una droga. La voce è lo strumento più comunicativo, più popolare. Metti insieme alla voce la parola e hai la droga più potente per l’orecchio. Il teatro d’opera ha stregato l’Italia. È strano: la forma-sonata, cioè la principale invenzione formale della musica del periodo classico e romantico, è molto teatrale nel conflitto fra i diversi motivi, eppure non ha avuto seguito in Italia. Questa assenza è triste e la spiego così: l’opera ha preso tutto il piatto.

Nella prossima stagione di Santa Cecilia lei dirigerà anche lavori di De Sabata e Ponchielli. Il motivo di questa scelta certamente inusuale?

Non ho problemi con il cosiddetto oldfashion, il fuori moda. Se dirigo Juventus di De Sabata, voglio che emerga lo slancio, il lirismo, il grande sole della sua musica. De Sabata è stato uno dei massimi direttori del suo tempo: il suo Beethoven, il suo Wagner, sono incisioni incredibili. Mi interessa il posto che ha avuto nella storia della musica italiana. Ponchielli è stato il maestro di Puccini e nella Gioconda c’è un personaggio, Barnaba, che è l’embrione di Jago nel Falstaff di Verdi. Arrigo Boito ha scritto i libretti per tutte e due le opere. Se sai, se ragioni su queste cose, la figura di Ponchielli diventa importante. È troppo facile dire: sono fuori moda.

Il pubblico torna o non torna, dopo la pandemia? E quanto è preoccupato dal fatto che il pubblico della musica classica non stia aumentando? Lo chiedo a lei perché si è adoperato più di altri suoi colleghi per vincere questa battaglia.

Mi auguro che il pubblico torni ad ascoltare i concerti con la mente sempre aperta, non rinchiusa. Volere che le cose restino come sono sempre state è una delle cose più pericolose. Ho molto rispetto per la tradizione, ma il suo contrappeso è la novità: suoni nuovi, idee nuove, gente nuove in sala. Avvicinare la musica ai giovani è un investimento a lungo termine, stiamo facendo un grande lavoro con la JuniOrchestra e i tanti cori per i bambini e i ragazzi. Certamente siamo aiutati dalle istituzioni pubbliche, ma ho l’impressione che dobbiamo sempre lottare per il nostro diritto di esistere. Non c’è in Italia verso la cultura la stessa fiducia che c’è, ad esempio, in Germania. Forse siamo meno svegli, forse abbiamo un patrimonio meno importante di quello tedesco? Non lo credo proprio. E faccio fatica a capire perché in questo periodo dobbiamo lottare per far entrare più pubblico nelle nostre sale, quando in aereo si viaggia stretti come sardine e gli stadi di calcio sono pieni. Siamo proprio un easy target, è facile spararci addosso. Questo non mi piace per niente. Chiedo al nostro pubblico di raccontare ai figli, ai nipoti che la musica classica è una cosa meravigliosa. Non mi stanco di ripeterlo'.

Quanto l’ha cambiata questa esperienza italiana, che cosa pensa di aver capito di noi?

Gli italiani sanno come vivere, ma fanno molta fatica ad andare d’accordo tra di loro. Per contrasto, sono stato fortunato a vedere, qui a Santa Cecilia, come si può collaborare bene per raggiungere insieme un risultato. Da due anni non vedo mia madre, che vive negli Stati Uniti con mio fratello. Questa lunga assenza mi fa sentire veramente colpevole, non mi basta dire che c’è stata la pandemia. Amare la tua famiglia, stare vicino alle tue radici è un sentimento che ho imparato in Italia e che mi sembra fondamentale nella cultura italiana.

E Roma?

Una combinazione unica di confusione, maestà, bellezza, sensualità, caos. Una città contraddittoria, il posto più bello del mondo e il centro del governo dove spesso prevale un’inquietudine difficile da comprendere. Ma il cittadino romano riesce a superare tutte le grane e ama immensamente la sua città.

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