giovedì 1 ottobre 2020
Il sacerdote spagnolo, nei diari scritti dalle corsie degli ospedali dove ha svolto la missione di cappellano, racconta la sua vita in trincea nei drammatici giorni di lotta estrema al Covid
Padre Ignacio Carbajosa

Padre Ignacio Carbajosa - -

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2 aprile 2020, Madrid. È il giorno in Spagna del picco dei morti: 950 in ventiquattro ore, 310 solo nella capitale. Come in guerra. Un sacerdote traversa la città deserta e si dirige verso l’ospedale San Francisco de Asìs. È un teologo, ordinario di Antico Testamento all’Università San Damaso, ma è stato chiamato a sostituire l’anziano cappellano dell’ospedale. Entra nel vecchio istituto, lo aiutano a bardarsi con visiere e maschere, come un soldato. Poi lo conducono in terapia intensiva. Stanze stracolme, mai viste così. Quasi un ospedale da campo. Dal letto in cui giace un vecchio gli chiede di essere confessato. È a torso nudo, il pannolone ai fianchi, come un bambino. Cerca di raccontare tutto di sé: il bene e il male, e il dolore per ciò che non è riuscito a fare. Il cappellano assolve e lascia la stanza, sopraffatto: «Mi appare davanti agli occhi il mistero dell’essere umano…Il desiderio dell’infinito in una carne che si corrompe». Il sacerdote è padre Ignacio Carbajosa, che racconta la sua trincea in Testimone privilegiato (Itaca edizioni. Pagine 128. Euro 12,00) «Privilegiato» nell’asprezza estrema di quei quaranta giorni, fino all’8 maggio, nel cuore di una battaglia che l’Occidente mai si sarebbe immaginato.

Di diari dalle corsie del Covid ne leggeremo molti. Questo ha qualcosa in più che ci provoca: il t«estimone» non porta farmaci, porta Cristo ai moribondi. Non tenta di arginare umanamente il male, ma va alla radice del dramma. Quale speranza ci resta davanti alla morte? Davvero siamo, in quell’ora, solo povere ossa lise, materia sfinita? I locali della terapia intensiva, scrive Carbajosa, gli appaiono «come la sala macchine» di una grande nave. E ci si immagina i passi rapidi, le voci, i rantoli, il rumore dei respiratori che insistono a immettere fiato nei polmoni esausti dei vecchi. Sì, è l’affanno della sala macchina su una nave in tempesta. Diciassette moribondi in una corsia: «Diciassette letti e diciassette Cristi giacenti. Che processione», scrive il cappellano venuto dalle aule universitarie. Con una consapevolezza: quello, in realtà è un santuario. Un luogo trasfigurato dalla pressione dell’epidemia in un cuore gonfio di domande: cosa è vivere, e cosa è alla fine morire. Ogni pretesa di salute, di ricchezza, di autonomia fra queste mura si infrange contro qualcosa di alto e insuperabile come una scogliera: non ci apparteniamo, non possiamo darci da soli nemmeno un minuto di fiato. Forse, è l’urto di quest’ onda ciò che ammutolisce il visitatore, più ancora che la sofferenza. Il più totale, nudo realismo, che sovverte lo sguardo con cui torni fuori, per strada.

C’è fra i moribondi chi a questa impotenza non si arrende, e combatte a lungo. Fino a che una mano scarnita non si alza dal petto, a segnarsi, in un gesto dimenticato. C’è chi riceve la Comunione magari perché il cappellano ha sbagliato stanza, ed è entrato dove non era atteso - o forse, invece, lo era tanto. Il Padre Nostro viene snocciolato con filo di voce nella versione antica, di decenni fa, quella che la memoria dei più anziani ha trattenuto. Si direbbe che riaffiora, intatto, dai detriti e dal tempo. Il 12 aprile è Pasqua. Il sacerdote celebra Messa con suore e medici: poi, giù in trincea. Lo trafigge un pensiero doloroso: Cristo è risorto, ma quanti, qui, sono ancora sulla Croce. E soli, senza nessuno accanto. Nulla della tragedia è nascosto, nel diario del teologo cappellano. Che agli sconosciuti nei letti può solo, da dietro la maschera e la visiera su cui reca scritto «sacerdote», testimoniare con la sua presenza che lui è qui in nome di Qualcuno. Di Cristo, morto e risorto, nel cui nome nessuno che muoia muore per sempre. Nel cui nome nessun volto amato è perduto per sempre. Nell’agone della battaglia di Madrid l’ antica promessa, la più censurata e negata, si allarga come un fiotto d’acqua viva, in certe stanze silenziose. È in quei Padre Nostro nella versione in cui lo imparavano tanto tempo fa i bambini, che in stanze remote della memoria lo ritrovano e lo mormorano, piano. Come, infine, tornati a casa.


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