sabato 12 dicembre 2015
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Lui e il basket a Varese sono nati insieme. Era il 1945. «Un segno del destino», si schermisce il varesino Aldo Ossola, indimenticato playmaker della grande Ignis (poi Mobilgirgi ed Emerson) e della Nazionale, bandiera della Pallacanestro Varese oggi in festa per i settant’anni dalla fondazione. Una coincidenza “profetica” che accresce la leggenda del “mito delle scarpette bianche”. Ma basta la sua bacheca a spiegare alle nuove generazioni perché Ossola è un monumento del basket italiano: sette scudetti, cinque Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali, quattro Coppe Italia e una Coppa delle Coppe. Ribattezzato “Von Karajan” per come dirigeva i compagni in campo, Ossola fu il regista di quella squadra formidabile che dal 1968 al 1980 diventò una delle più vincenti nella storia del basket (con dieci finali consecutive di Coppa dei Campioni).Qual era il segreto di quella squadra?«Avevamo tanti campioni, da Bob Morse a Manuel Raga, ma chi ha sempre fatto la differenza è stato Dino Meneghin. Con tutti c’era una grande amicizia, la nostra forza era proprio quella. Ci volevamo davvero bene. Pensi che ho anche chiamato mio figlio Emanuele come Raga. In campo davamo l’anima l’uno per l’altro».Immagino sia difficile scegliere una vittoria tra tante.«Ricordo sempre quel treno di tifosi quando vincemmo a Roma lo spareggio scudetto contro il Simmenthal Milano nel 1971. Senza dimenticare il trionfo in Coppa dei Campioni l’anno prima a Sarajevo contro il Cska Mosca. Però le coppe potevano essere molte di più. E che delusione soprattutto la rivincita col Cska, la finale persa ad Anversa nel 1971. Un’altra pagina triste fu quella in casa col Maccabi Tel Aviv, quando quattro teste calde sugli spalti li accolsero con slogan e croci naziste. Noi giocatori quando ce ne accorgemmo andammo a chiedere scusa agli israeliani e da allora con molti di loro è nata anche una fraterna amicizia: tuttora ci sentiamo».All’origine di quella epopea ci fu un mecenate dello sport, quel Giovanni Borghi presidente e industriale che legò la sua ditta di elettrodomestici a una serie di squadre vincenti in tanti sport: non solo il calcio in serie A e la pallacanestro, ma anche canottaggio, pugilato, ciclismo e ippica.«È stato Borghi con i suoi investimenti a portare la grande pallacanestro a Varese. All’inizio il mio rapporto con lui non fu fortunato. Io avevo cominciato nell’altra squadra della città, la Robur et fides. Arrivai all’Ignis nel 1963 ed ebbi problemi ad ambientarmi, venivo dal modello dell’oratorio. Ebbi il coraggio di dirgli in faccia che la squadra non mi piaceva e sarei andato a Milano. Lui andò su tutte le furie, mi cacciò fuori e mandò tutti a quel paese. Però tre anni dopo quando tornai fu il primo ad aver fiducia in me, nonostante anche il figlio dicesse che al padre non piacevano le minestre riscaldate ».Al cumenda Borghi sono legati tanti aneddoti. «Ero presente quella volta che dovevamo partire per la Russia e a causa della nebbia non arrivò il velivolo sovietico. Allora Borghi chiese a una compagnia cecoslovacca. Aprì la valigetta di dollari che portava sempre con sé e pronunciò la sua proverbiale frase: “ Sa’l custa?”, “Quanto costa?”. Li convinse a partire, ma in realtà lui intendeva acquistare l’aeroplano vero e proprio».Lei è il terzo figlio di una famiglia di calciatori di successo. Il suo fratellastro maggiore, Franco, campione del Grande Torino, fu vittima della tragedia di Superga. E anche suo fratello Luigi ha giocato in Serie A.«Quando l’aereo del Torino cadde avevo solo quattro anni. Pochi mesi prima era morto mio padre Gino in un incidente stradale. Fu un anno disgraziato. Ma mia madre fece di tutto per colmare quelle lacune. A nove anni mi beccai il tifo e gli antibiotici mi fecero crescere di colpo in altezza di 56 centimetri, arrivando a 191. A quel punto mi dissero: più che il calcio forse è meglio se giochi a pallacanestro. Ma dovevo tener fede alla volontà di mio fratello Franco e mia madre: prima dello sport veniva lo studio. E così presi il diploma di ragioneria. Non fu facile perché cominciai a giocare in Serie A in terza ragioneria. Poi mi capitava pure il professore di francese tifoso del Simmenthal, che mi beccava sempre al lunedì e mi dava 3… Sono ovviamente tifoso del Toro, ma purtroppo la tragedia di Superga mi ha lasciato per sempre la paura di volare che mi è costata anche tante presenze in Nazionale».Le sue rinunce però furono diverse.«Rinunciai anche alle Olimpiadi del Messico del 1968 perché dicevo: ho messo al mondo un figlio e non riesco mai a godermelo dal momento che sono sempre in giro: non voglio vedermelo davanti a dieci anni e pensare di non aver apprezzato questo grande dono del Signore. Vede, i miei figli (Emanuele e Paola) sono davvero il regalo più bello che abbia mai avuto. Allora rinunciai. Tutti mi dissero “te ne pentirai”, ma tornando indietro rifarei la stessa cosa».Al basket invece non ha mai rinunciato. Ha cominciato a dieci anni e si è ritirato ufficialmente solo nel 2009: 54 anni di carriera...«Mi ritirai una prima volta nel 1979. Ero stufo, c’era troppa pressione attorno alla squadra, la gente era abituata a vederci vincere e questo mi creava stress. Ma soprattutto non mi divertivo più: ho sempre pensato che prima di essere una professione lo sport è divertimento. Però ad ottobre di quello stesso anno ricominciai ad allenarmi con l’Emerson di allora. Feci in tempo a vincere la Coppa delle Coppe del 1980. Ma nemmeno allora appesi le scarpe al chiodo e ho proseguito con lo Sporting Varese in prima divisione. Avevo compiuto 61 anni e chiesi al presidente di allora il mio amico Meneghin di togliere il limite di tesseramento dei 60 anni e così ho giocato fino a 64. Oggi però mi dedico completamente a portare avanti l’attività del papà, quella di gioielliere».Dica la verità: vedendo le attuali difficoltà dell’Openjobmetis Varese (nelle retrovie della classifica di A) scenderebbe ancora in campo?«Non me lo dica. Mi prendono in giro perché vado a vedere le partite ma dopo due quarti vado via. Non lo faccio per imitare l’Avvocato Agnelli. Ma perché soffro troppo, sto male. Scenderei davvero in campo. Il problema di Varese, ma di tutte le squadre italiane, è che abbiamo troppi stranieri e di basso livello. Una volta arrivavano da noi i Morse o i Bill Laimbeer, oggi solo gli scarti. E ci siamo dimenticati dei settori giovanili. Poi la pallacanestro è cambiata. È diventata solo muscolare: non mi meraviglio se fra un po’ alzeranno anche i canestri». È solo una questione tecnica?«No. Noi abbiamo avuto la fortuna di avere allenatori nel settore giovanile, soprattutto all’oratorio, in cui prima ti insegnavano la vita e poi la pallacanestro. Ma oggi un allenatore di 25-26 anni che cosa può insegnare a un ragazzo? Ci sono troppi soldi e troppi procuratori e manca la cultura del sacrificio».A chi non l’ha vista giocare cosa direbbe di sé?«Mi piacerebbe essere ricordato come uno il cui valore lo vedevi soprattutto quando non c’era. Mi hanno spesso rimproverato di tirare poco. Ma ho sempre preferito cercare un compagno libero per fargli un bell’assist che segnare un bel canestro. Di assist in campo ne ho fatti tanti. Ma il più bello penso di averlo fatto nella vita, quando ho trovato mia moglie».
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