Oltre l'autenticità: così la Sindone interroga la nostra fede

Nuovi documenti dalla Francia del Trecento aprono piste su genesi e uso: ma parlare di frode è fuorviante. Più che reliquia da autenticare, il telo fu memoria viva del Cristo. E chiede nuovi appro
September 8, 2025
Oltre l'autenticità: così la Sindone interroga la nostra fede
Negli ultimi tempi si è parlato molto della pubblicazione, sul Journal of Medieval History, di un saggio di Nicolas Sarzeaud, ricercatore all’Académie de France, a Roma, che ha reso noto un testo inedito di Nicole Oresme (1320 ca.-1382), uno dei massimi intellettuali francesi del XIV secolo, distintosi per il suo atteggiamento critico verso superstizioni e credenze infondate. La sua posizione sul sacro telo si colloca sulla stessa linea: egli nega l’autenticità della Sindone, qualificandola come un inganno architettato dai canonici del piccolo priorato di Lirey a fini di lucro. Si tratta di una testimonianza di grande rilievo, giacché documenta un’esplicita presa di posizione già negli anni Settanta del Trecento, anticipando la ben più nota lettera di Pierre d’Arcis, vescovo di Troyes (1389), e le bolle papali di regolamentazione del culto del 1390. Com’è noto, la vicenda è stata ampiamente ricostruita da Andrea Nicolotti, ordinario di Storia del Cristianesimo presso l’Università di Torino. Dal primo apparire della reliquia a Lirey, verso il 1355, passando per l’inchiesta vescovile e l’interruzione delle ostensioni, fino alla loro ripresa fraudolenta del 1389, si delinea la parabola d’un oggetto controverso. Non stupisce, dunque, che la scoperta di Sarzeaud riapra il dibattito sulla sua genesi.
Al di là delle polemiche, mi pare essenziale che ci si soffermi su un punto di metodo. Il passo di Oresme non costituisce un’analisi diretta dell’oggetto, ma un giudizio – ancorché autorevole – sul suo utilizzo improprio. Certo, proprio per questo va preso con grande serietà: il fatto che un intellettuale di primo piano lo ritenesse un manufatto spacciato per autentico segnala che la percezione di contraffazione era diffusa. Va detto, a ogni modo, come il documento ci parli più di come l’oggetto venisse utilizzato che della sua origine. Nessuna delle testimonianze superstiti è in grado d’illuminare i pensieri e le intenzioni del committente. In questo senso, la voce di Oresme serve, soprattutto, a ricostruire ciò ch’egli riteneva o che gli fu riferito. A ben vedere, siamo di fronte a uno dei luoghi classici del mestiere di storico: le fonti parlano prima di tutto di chi le ha prodotte che dell’oggetto a cui si riferiscono. Ma poniamo pure ch’egli avesse ragione – tanto più, di fronte alle testimonianze successive e ai pronunciamenti papali –: siamo sicuri che l’obiettivo della sua fabbricazione fosse espressamente la frode?
Così l’hanno dipinta diversi commentatori. Eppure, il fatto che la Sindone fosse mostrata come l’autentico sudario del Cristo, e che ciò fosse condannato da vescovi e papi – tesi a specificare che bisognava prestarle culto solo in quanto «figura o rappresentazione del suddetto sudario» («figuram, seu representacionem dicti Sudarii»), «cessando ogni frode» («omni fraude cessante»), specifica Clemente VII (e non entro sugli enormi problemi che l’uso di tali termini, volutamente ambigui, comporta…) –, ci autorizza a ritenere che tale fosse l’intento di chi la commissionò? Credo che ciò sia limitativo, e che si possa valutare l’ipotesi – si badi: non suffragata, per il momento, da alcuna fonte – ch’essa sia stata fabbricata per altri scopi. Non tanto un “falso”, dunque, ma un oggetto creato per commemorare – rendere presente – le sofferenze del Cristo. Un manufatto, tuttavia, che, come accadeva spessissimo, avrebbe subito un uso distorto, più volte sanzionato. È possibile, dunque, parlare di “falso”? Preferisco pensare, come ipotesi di lavoro, più che a un inganno premeditato, a un processo in cui devozione, interessi economici e patronato nobiliare s’intrecciano.
Ovviamente, questo discorso presuppone che l’oggetto risalga al XIV secolo. Non prende in considerazione l’ipotesi dell’autenticità; e ciò, nonostante il dibattito contemporaneo si sia cristallizzato attorno a questa alternativa. Non entro nel merito. Mi limito alle testimonianze documentarie. Segnalo il rischio, tuttavia, di trascurare i risvolti teologici della questione: la fede cristiana non si fonda su reperti tangibili, ma su un evento proclamato e creduto. Giovanni riferisce che Pietro, entrato nel sepolcro, vide le bende, il sudario piegato e credette (Gv 20,6-8): il segno, non la prova, genera la fede. Nel De doctrina christiana, Agostino distingue tra «signum» e «res»: il segno rimanda a una realtà ulteriore, ma non s’identifica con essa. La fede, se ridotta a evidenza, cesserebbe di essere tale, poiché – come ricorda la Lettera agli Ebrei – «essa è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede» (Eb 11,1). Per questo nessuna reliquia, neppure la più venerata, poteva valere come dimostrazione materiale della Resurrezione. Al più, come evocazione o memoriale. È significativo che Tommaso d’Aquino, nella Summa Theologiae (III, q. 25, a. 3), parlando delle immagini cristiche, sostenga ch’esse non siano venerate per sé stesse, ma per ciò che rappresentano: l’immagine non è menzogna, ma memoria viva del Mistero: una via pedagogica e affettiva che guida il fedele oltre il visibile. La Sindone s’inserisce appieno in questa logica: non documento forense, ma «imago» del Cristo sofferente, capace di scuotere il cuore dei fedeli.
Il problema, allora, non è stabilire se la Sindone sia “autentica” nel senso moderno del termine – se, cioè, sia effettivamente il lenzuolo che ha avvolto il corpo di Gesù –; al contempo, è riduttivo definirla un “falso”, assolutizzando le testimonianze relative al suo uso proditorio da parte dei canonici. Senz’altro, è interessante capire perché una chiesa capitolare di un centro secondario decida di sfruttare quel manufatto a proprio vantaggio e, dunque, attraverso quali meccanismi la frode denunciata fu messa in atto. Ma non è tutto. Altre domande attendono risposta. Perché fu scelto proprio quel tipo di rappresentazione? Perché quella specifica iconografia? Quali pratiche di devozione passionista erano in vigore nei canonicati francesi? In che rapporto si pone con il sorgere dei primi drammi passionisti in area francese? Si ha notizia di come effettivamente fosse utilizzato il telo? Quale funzione drammatica o teatrale assumeva nei riti penitenziali e processionali, se l’assumeva? Esistevano testi liturgici, omelie o uffici associati all’ostensione? Che tipo di esperienza devozionale offriva al fedele: contemplazione, commozione, identificazione col dolore? Che teologia implicita comunica? Le ricerche di Carla Maria Bino, professoressa associata di Storia del Teatro presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, hanno mostrato come le rappresentazioni e i drammi sacri del tardo medioevo abbiano avuto un ruolo decisivo nel trasformare reliquie e immagini in strumenti di pedagogia spirituale e di partecipazione comunitaria.
In questa prospettiva, l’ipotesi che il telo fosse concepito originariamente come parte scenografica di una liturgia passionista appare tutt’altro che marginale, e merita di essere indagata a fondo. Penso, anzi, che la ricerca debba ripartire da qui. Certo, la sua storia non è riducibile a quella d’un inganno svelato. La Sindone non chiede d’essere sottoposta a una verifica empirica, ma di venire compresa alla luce della mentalità religiosa che la generò. È in questa capacità di evocare, commuovere e suscitare fede che si riconosce la sua eredità più autentica.

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