domenica 24 novembre 2019
Diventiamo davvero individui solo quando siamo capaci di stare assieme ad altri liberandoci dall’orgoglio. Una anticipazione del nuovo libro del cardinale Matteo Maria Zuppi «Odierai il prossimo tuo»
Matteo Maria Zuppi, cardinale arcivescovo di Bologna (Siciliani)

Matteo Maria Zuppi, cardinale arcivescovo di Bologna (Siciliani)

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Pubblichiamo una anticipazione da Odierai il prossimo tuo. Perché abbiamo dimenticato la fraternità. Riflessioni sulle paure del tempo presente, il nuovo libro di Matteo Maria Zuppi, cardinale arcivescovo di Bologna, scritto con il giornalista Lorenzo Fazzini (Piemme, pagine 192, euro 16.50).

So di non dire niente di particolarmente originale nell’esemplificare alcune conseguenze di un individualismo che rischia di diventare, nella nostra epoca, parossistico. Sono tante, però, le patologie che crescono in individui senza un “noi” e penso possa essere utile guardarci dentro. Siamo la generazione più connessa della storia, ma anche la più sola. Che il governo britannico abbia scelto di istituire un “Ministero della Solitudine” la dice lunga sullo stato del nostro vivere sociale, così come il dato Istat secondo il quale in Italia un nucleo familiare su tre è composto da una persona sola ci parla di una condizione di isolamento reale. Siamo l’umanità che può scegliere con estrema facilità i propri interlocutori e stabilire senza difficoltà quali possono essere i propri partner (affettivi, relazionali, lavorativi, di relax), ma tutto questo avviene spesso all’insegna di passioni di superficie, cangianti, alle quali ci abbandoniamo davvero solo se pensiamo di poter controllare e limitare le conseguenze, cioè il “prezzo” che l’altro potrebbe chiederci di pagare per amarlo davvero.

Vogliamo essere liberi, ma siamo prigionieri dello spazio e delle cose, catturati dal momento, come nell’agone digitale. Sappiamo così poco andare oltre noi stessi ed entrare nel tempo e nelle relazioni, condotti come siamo dalle correnti emozionali, come se queste, vissute senza amore, non fossero a loro volta parte di un calcolo (fin dove lasciarci andare?) e frutto di convenienze. Vogliamo rapporti veri, ma nel contempo tutto attorno a noi ci spinge a misurare ogni cosa, e questo spegne ogni autenticità. Nei decenni passati, quando esistevano appartenenze importanti, fisiche o ideologiche (i partiti, i sindacati, i “gruppi”, la famiglia), la regola era la militanza: grande impegno e coinvolgimento personale, abnegazione, sacrificio, desiderio di contribuire personalmente al bene comune, assieme al rischio della collisione con altre militanze. Oggi le appartenenze sono piuttosto digitali, comunque più individualistiche e frammentarie, condizionate da opportunità, affinità iniziali e non verificate, oppure contingenze. Cosa diventa un individualismo di questo genere se non crescono parimenti la responsabilità, la capacità di discernimento e di visione che sono possibili solo in un rapporto con il prossimo?

Anche la diffusa paura di donare vita e di generare deriva in larga parte, a mio modo di vedere, da una paura figlia dell’individualismo e dal timore di una responsabilità diversa da quella dell’attimo presente. L’inverno demografico in cui siamo immersi sconta, certo, la mancanza di servizi adeguati in una società frammentata, e lo spostamento nel futuro dell’assunzione della responsabilità e della limitazione delle proprie libertà personali. Ma è davvero espressione di un grande timore della responsabilità e del futuro [...].

L’egocentrismo – io penso – ha pretese senza limite, perché il vero limite, che non riesco mai a superare da solo, sono io stesso: quell’io su cui punto tutte le mie risorse. L’egocentrismo ci persuade che staremo bene solo assecondando il nostro io, anche a costo di rovinare i rapporti con le persone più care. Così finiamo per scegliere la parte e non il tutto, lo spazio e non il tempo, la difesa delle cose piuttosto che la costruzione dei rapporti, come evidenzia papa Francesco nel suo testo programmatico Evangelii gaudium. Le idee diventano più importanti della realtà, tanto che ci accontentiamo di una vita virtuale, delle nostre intenzioni, o finiamo per scambiare la realtà con le nostre interpretazioni. Aveva proprio ragione papa Giovanni XXIII, secondo quanto ebbe a riferire il suo segretario, il futuro cardinale Loris Capovilla. Papa Roncalli, poco dopo l’annuncio della convocazione del Concilio Vaticano II, disse: «Finché uno non mette il suo io sotto le scarpe, non sarà mai un uomo libero ». Solo liberando l’io dall’orgoglio l’uomo trova se stesso e diventa individuo, ma non solo: è se stesso proprio perché capace di stare insieme ad altri, senza rimanere un’isola.

(Pubblicato per Piemme da Mondadori Libri S.p.A. © 2019 Mondadori Libri S.p.A., Milano)

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