martedì 22 luglio 2014
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Come favorire una cultura che compagini la tecnologia con la tradizione autoctona? Il problema è più evidente in Africa, dove il passato coloniale grava ancora. La costruzione delle nuove chiese nelle missioni può essere un veicolo importante. Il problema, nella ricerca di equilibrio tra tradizione locale e influsso esterno, è esemplificabile col caso della chiesa di Nostra Signora della Pace a Yamoussoukro in Costa d’Avorio voluta negli anni ’80 dal presidente Félix Houphouët-Boigny come imitazione di San Pietro in Vaticano, con costi economici non indifferenti, per dare prestigio al Paese: non alla Chiesa. Nei decenni scorsi in Africa (come in altri territori di nuova cristianizzazione, dall’America all’Australia) era usuale costruire chiese simili a quelle gotiche o barocche, romaniche o neoclassiche, tra l’altro per segnare la comune appartenenza alla tradizione cristiana. Invece la Chiesa missionaria, committente sapiente di opere che divengono momenti fondanti dei posti ove sorgono, agisce secondo logiche diverse e fa delle sue chiese in Africa il germe di quelle che potranno essere le città nuove, capaci di coniugare la sostenibilità ambientale ed economica con la tecnologia appropriata al luogo, attraverso cantieri che divengono scuole dove si impara costruendo. Luoghi di culto non appariscenti ma autentici, edifici in cui si ravvisa il desiderio dei progettisti, per quanto stranieri, di ascoltare le tradizioni e le culture locali e di mettere la loro arte a disposizione del dialogo e dell’incontro. Queste chiese sono un riferimento per popolazioni che vivono sparse su vasti territori, baricentro di nuove realtà urbane.


 

 Burundi. Missione di Kayongozi

 «Ci immergemmo nel modo di vivere della gente, condividemmo il loro modo di vedere il mondo, conoscemmo le loro aspirazioni e il linguaggio dei loro cuori. Ammirammo la natura che li circondava», riferisce l’architetto Luigi Leoni che, negli anni ’80 con l’artista padre Costantino Ruggeri fu tra i pionieri del nuovo approccio al progetto delle chiese in Africa. Per la missione francescana di Kayongozi in Burundi lavorarono a tre edifici: San Francesco, San Bernardino a Nyakay e Santa Chiara a Nyamugari. «L’esperienza in Africa ci ha indicato come liberarci dei pregiudizi per accogliere la novità di un mondo vergine, capace di ispirare, con la sua semplicità, le forme più essenziali e vere». In Burundi e Ruanda il nucleo sociale primario è il clan, le cui capanne sono raccolte entro un recinto. Del pari la chiesa di San Francesco dispone di un’ampia corte circondata da alberi che svolgono una funzione simile «a quella delle colonne di piazza San Pietro». All’interno delle chiese i sostegni sono in legno; i luoghi e gli oggetti liturgici riprendono il disegno degli strumenti domestici.


Kenya. Cattedrale di Embu

Il cardinale John Njue, oggi arcivescovo di Nairobi, era vescovo di Embu quando decise di costruirvi la cattedrale. Scelse un’altura che domina l’abitato e chiese aiuto all’architetto Carlo Fumagalli. L’ispirazione del progetto venne dal vicino monte Kenya, dalla forma a cono schiacciato. La danza lì accompagna ogni manifestazione religiosa: si posero porticati sul fronte «per permettere ai cresimandi di percorrerli danzando prima di entrare in chiesa». Il vescovo invitò tutti a dare il loro contributo, non in denaro, ma in opere. Gli scavi furono eseguiti a mano; a mano furono lavorati le pietre e i legni. L’operazione più delicata fu la messa in opera dei pilastri metallici giunti dall’Italia: dovettero essere issati e inseriti nei loro alloggiamenti, a braccia con l’ausilio di paranchi: diede manforte anche il vescovo. Dopo la consacrazione nel 2002 sono state costruite la scuola che accoglie centinaia di bambini, una casa per le suore, gli uffici del vescovo. Tutt’attorno sono sorte molte case. Scrive Fumagalli: «Oggi la cattedrale si vede da lontano. Imponente, con le due torri che innalzano la croce, è punto di riferimento, orgoglio di tutti, credenti o no, segno di speranza».
Camerun. Chiesa di Garaua

Esagoni accostati gli uni agli altri: uniti con uno o più lati per comporre ambienti che possono essere singoli e separati, oppure uniti e ampliati. Come un alveare: un concetto semplice, tratto dalla genialità della natura per il centro pastorale di Garaoua in Camerun da un architetto italiano, Giancarlo Marzorati, di concerto con don Aldo Farina, missionario. Un’architettura coerente con quanto offre la tradizione del luogo: le strutture esagonali sono una rivisitazione delle capanne ancestrali. I tetti sono in lamiera, per dare solidità all’insieme e garantire una protezione duratura dalla pioggia, ma coperti di paglia, che impedisce al sole di riscaldare il metallo. Una progettazione adatta al luogo per quanto pensata a migliaia di chilometri di distanza. Il centro parrocchiale di Garaoua potrà crescere, e le sue strutture estendersi: ora che le persone hanno imparato come si fa e hanno visto com’è composta l’architettura, potranno aggiungere nuovi elementi e ampliare la chiesa, oppure erigere nuove capanne per aumentare gli spazi per gli incontri, per l’educazione, per il gioco.
Uganda. Cattedrale di Mityana

La lezione della semplicità e dell’autenticità è esemplare dell’approccio seguito da tanti progettisti che hanno operato in Africa dopo il Concilio Vaticano II. Già nei primi anni ’70 l’architetto svizzero Justus Dahinden progettò a Mityana in Uganda la cattedrale dedicata al martire S. Noe Mawaggali. Dahinden immaginò la forma di una grande capanna, ma divisa in settori tra loro un poco distanziati così da aprirsi verso il cielo e da lasciare un ampio spazio interno. La separazione tra le parti fa sì che le dimensioni delle capanna-cattedrale non divengano sproporzionate e la sua massa non sia troppo incombente, così la si può avvicinare con familiarità. Al posto delle campane ecco un tam tam, posto su una struttura elevata e ben visibile da lontano. I muri in mattoni o intonacati di colore ocra scuro si elevano dalla terra pur continuando ad appartenervi. Piccole croci in mattoni sporgono dalle pareti con un minimalismo ante litteram. È un caso rarissimo di disegno architettonico marcato da tratti di decisa modernità, che riesce ad inserirsi con naturalezza nel panorama e nella cultura del luogo.
Adua. Chiesa di Maria Ausiliatrice

Questa è stata una terra di scontri feroci, che hanno riguardato i tentativi coloniali italiani e gli scontri ta gruppi etiopi. La chiesa della missione dei salesiani presso Adua è stata progettata da Luigi Caccia Dominioni che l’ha dotata di una poderosa carica simbolica, anzitutto nella facciata convessa che si prolunga in un muro ricurvo, come un braccio che protende la statua della Vergine. Un’architettura elaborata tenendo conto del clima locale, ma soprattutto del significato che l’architettura stessa trasmette. Qui le pareti e la copertura dagli andamenti avvolgenti dicono “pace”. È questo il messaggio che i salesiani si sono impegnati a diffondere, e non a caso la chiesa è divenuta luogo di incontro non solo per i cristiani di varie denominazioni e anche per islamici. Sulla facciata si inerpica una scala che porta a una balconata: il sagrato è luogo di incontro e di celebrazioni all’aperto. Una chiesa che non rinuncia alla tradizione europea mentre si rivolge con volto sorridente ai cittadini etiopi.
Ruanda. Chiesa di Mbare

Che cosa aggiunge la progettazione architettonica alla semplicità dettata dalla necessità? Il senso del segno, il significato che trasmette un messaggio visivo, immediato a chi guarda: lo si vede per esempio in Ruanda, dove la chiesa di Mbare, nella diocesi di Kabgayi, è stata progettata pochi anni fa da S. Uwizeyimana ed E. Woitas con una pianta a forma di cuore e una tessitura parietale di mattoni policromi e bucature di varia conformazione che hanno valore ornamentale oltre a permettere la circolazione dell’aria. La progettazione è ridotta all’osso: i muri si elevano diritti sulla pavimentazione e la copertura è sostenuta da una serie di piedritti in metallo. Oltre alla pianta a cuore, l’ambiente della chiesa “parla” attraverso le differenze cromatiche dei mattoni e i vetri colorati, ma soprattutto campeggia la croce che sembra proiettata verso l’interno. I tanti segni colorati che si sommano sulla parete che avvolge la chiesa esprimono un’ingenuità quasi fanciullesca. E la forma del cuore dice “pace” in ogni lingua.
Kenya. Chiesa di Smirna

Per Smirna, in Kenya, l’architetto italiano Maurizio Martinuzzi ha progettato una chiesa (in corso di realizzazione) che in pianta è conformata come uno scudo tribale: strumento che protegge, come la fede. La distribuzione degli spazi ruota attorno alle danze che animano le celebrazioni cui partecipano persone che camminano per decine di chilometri per arrivare. La progettazione è stata accompagnata da una riflessione sui poli liturgici e sulla loro distribuzione, tra gli altri con la partecipazione di monsignor Remigio Clozza della diocesi di Pordenone. Scrive Martinuzzi: «In Kenya non c’è memoria storico-religiosa e i luoghi di culto che ho visitato sono “spogli”, pieni però di quell’energia emanata dalla danza e dal canto che si alternano a momenti di totale silenzio, resi poi ancor più vibranti dalla sola voce del celebrante: in questa azione liturgica c’è una forte dimensione concelebrativa». Il pronao a loggiato è inteso a favorire celebrazioni all’aperto, alle quali partecipano tante persone da non poter trovare posto all’interno della chiesa.
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