venerdì 14 ottobre 2022
Nuova edizione del libro di Silvana Panciera su questo movimento che vide protagoniste donne le quali, pur non pronunciando voti monastici, condussero una vita di devozione, povertà e carità
Una beghina a Bruges nel 2009

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La recente nuova edizione rivista e ampliata del libro di Silvana Panciera Le beghine. Una storia di donne per la libertà (Gabrielli, pagine 174, euro 17,00) mette a disposizione degli studiosi, ma anche di un più ampio pubblico, uno strumento particolarmente utile per conoscere un movimento che ha avuto un ruolo assai rilevante nella storia della Chiesa e che vide protagoniste congregazioni di donne le quali, pur non pronunciando voti monastici, condussero una vita di devozione, povertà e carità. Nei sei capitoli in cui è suddiviso il volume il lettore troverà innanzitutto precise informazioni circa il contesto storico nel quale il movimento beghinale sorse e si sviluppò. L’autrice si sofferma poi a illustrare la vita quotidiana delle beghine, descrivendone le attività, le regole del comportamento, le dimore in cui abitavano. Particolarmente interessante è il quarto capitolo che «offre una sintesi dell’originalità del movimento e delle sue intuizioni mistiche, insistendo sulla sua particolarità di fenomeno laico e soprattutto femminile ». Successivamente, Panciera fa conoscere più da vicino varie beghine e ricorda le figure di alcuni loro famosi ammiratori. Il capitolo conclusivo è dedicato a delineare l’eredità visibile dei beghinaggi, tredici dei quali nel 1998 sono stati dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Intitolando il secondo capitolo Un movimento senza origine, senza fondatrice, senza regola unica, senza storiografia, l’autrice offre subito le coordinate essenziali per comprendere l’originalità di questo fenomeno religioso, che fa la sua comparsa verso la fine del XII secolo, sulla scia del rinnovato fervore spirituale che caratterizza varie zone dell’Europa del tempo. Le prime a muoversi sono donne di elevato rango sociale, poi sarà la volta di quelle, più numerose, appartenenti agli strati popolari. Tutte sono caratterizzate da un forte desiderio di vivere la fede evangelica in modo radicale, senza tuttavia abbandonare lo stato laicale. I contemporanei le definiscono mulieres devotae; vanno ad abitare presso ospedali o abbazie, pregano, curano i malati, ma non prendono i voti. Inizialmente suscitano ammirazione, che ben presto, però, si tramuta in sospetto e, ancor peggio, in derisione. Né mogli né monache, la loro condizione non fa riferimento a nessuna autorità maschile, cosa che, come è facile capire, non risulta facilmente accettabile in quel momento storico. Ignota è l’origine dell’appellativo con cui sono passate alla storia; di certo esso ha assunto una caratterizzazione negativa. In Lombardia saranno chiamate humiliate, in Toscana bizzoche o pinzochere. Presto l’Inquisizione si occupa di loro, temendo lo spirito di libertà che incarnano; più di una finisce sul rogo; altre vengono tollerate; qualche raro potente ecclesiastico le protegge. Per niente bigotte, come spesso invece si è insinuato, le beghine, a giudizio di Panciera, meriterebbero una ben più profonda e significativa riabilitazione, a motivo della bella testimonianza che hanno lasciato, soprattutto attraverso la loro grande opera assistenziale, il patrimonio architettonico, l’esemplarità della vita comunitaria, vari scritti di grande valore, come Lo Specchio della anime semplici di Margherita Porete; senza dimenticare l’esaltazione della libertà e dell’amore che le contraddistinse. Anche Marco Vannini, noto studioso di mistica, è convinto della necessità di rivalutare le beghine e scrive nella Prefazione: «La storia di queste donne e delle loro forme di aggregazione, con la loro straordinaria sintesi di comunione e di libertà, di approfondimento spirituale e di impegno caritativo, può davvero far riflettere, non per il passato, me per il presente e più ancora per il futuro».

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