giovedì 8 dicembre 2016
Un’analisi stringente del cardinale Martini sul modo in cui la fede può e deve essere vissuta per cambiare alla radice le sorti della società
Martini e il ruolo dei laici: «Santità compito di tutti»
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Che cos’è, che cosa si vuol dire e, soprattutto nell’oggi, che cosa significa che esiste una santità di popolo? Il concetto di vocazione universale è sempre stato inteso nella Chiesa, e anche oggi viene inteso, viene vissuto, ma certamente con sfumature diverse. Grosso modo, si potrebbero porre tre modelli, tre interpretazioni pratiche di questa santità globale, universale.

C’è il modello della santità elitaria, cioè un gruppo che si stacca dalla massa un po’ tradizionale, un po’ amorfa, un po’ negligente, ritenuta massa post-cristiana, poco capace di capire le profondità del mistero di Dio e della vita spirituale. Un gruppo si stacca per vivere un cristianesimo rigoroso, un cristianesimo puro. Questo è un tentativo continuamente rinascente nella storia della Chiesa; abbiamo continui esempi di queste forme di ricerca del cristianesimo puro e primitivo e quindi della santità vissuta. Ciò che è caratteristico di questo modello aristocratico-elitario è il fatto che esso è vissuto sempre in sottile polemica, in latente polemica col resto. C’è sempre, mai teorizzata, ma affiora nei discorsi, nei comportamenti [la contrapposizione] noi-gli altri; noi abbiamo trovato la via, siamo fedeli al Vangelo; gli altri andranno dove andranno. Se vengono da noi o con noi, allora partecipano alla chiamata di santità, altrimenti sono come in una zona d’ombra non ben definita, in una specie di limbo.


Occorre, per entrare in questa intenzione del Signore, fare il passaggio a questa ricerca di rigore, che è una ricerca molto attraente perché ha sempre dei caratteri di lucidità e di tensione. E la storia appunto è lunghissima e tanti movimenti del cristianesimo antico si ispiravano a questo. Nell’epoca moderna, forse, il maggiore tentativo teologico, e quindi poi anche pastorale di realizzare questo sforzo, è stato quello che poi è divenuto il Giansenismo. Era un ritrovato rigore della vita evangelica che intendeva ritradurre in una realtà diffusa; quindi, certamente, questa interpretazione elitaria o aristocratica non è semplicemente qualcosa di scontato o di ridicolo. È un tentativo di riportare un rigore vissuto, ma che sempre è velato da una polemica e da un giudizio negativo che quindi tende a differenziarsi e a costituire delle forme di aristocrazia.


C’è un secondo modello – questi modelli sono evidentemente dei modelli astratti, teorici perché poi la vita vissuta comporta una continua forma di eclettismo e di transizione ma, per semplificare, diciamo che c’è un secondo modello – si potrebbe chiamare quello della “santità vicaria”, in cui alcuni si santificano per molti. È quello che sottostà, per esempio, alle migliori tradizioni degli ordini religiosi o appunto di tante vocazioni alla santità. Alcuni ai santificano, ma non staccandosi dagli altri, disprezzando gli altri, ma con gli altri, per gli altri, quasi al posto degli altri.


Ci sono alcune pagine molto belle di santa Teresa di Gesù Bambino, che potrebbero commentare questo tipo di interpretazione della vocazione universale alla santità. Il modo con cui per esempio lei vive il dramma del condannato a morte, del Pranzini, che viene accompagnato da lei, quasi portato nella sua fede e salvato dal suo sacrificio, è una realizzazione di questa santità, non elitaria, non esclusiva, coinvolgente che vuole vivere la santità di tutti, con tutti e per tutti e la porta nel proprio rigore di vita e di donazione.


E questo aspetto è molto importante e va valorizzato poiché corrisponde a una delle dinamiche bibliche ordinarie: “alcuni per gli altri”, “pochi per molti”, e quindi è una delle costanti dell’agire di Dio nella storia. Del resto, anche la prima realizzazione ha per sé alcune sottolineature bibliche. Il popolo scelto, il popolo separato, la santità intesa come separazione. «Salvatevi da questa generazione perversa»: anche questo ha le sue sottolineature reali. Diventa invece modello quando si pone come forma onnicomprensiva dell’essere cristiano.


Però, appunto, mettendo insieme queste due realtà credo che non abbiamo ancora raggiunto il fondo dell’intuizione della santità popolare. Cioè, la santità aristocratica e la santità vicaria hanno bisogno, quanto mai nel nostro tempo, di coniugarsi o di tendere a valorizzare quella che si potrebbe chiamare la santità diffusa, quella che raggiunge gli strati sociali, le situazioni ordinarie anche poco appariscenti a livello dell’analisi spirituale, ma che scopre dinamismi e tendenze di Spirito santo diffuse un po’ dovunque.
Io penso che c’è oggi un modello di questa santità di popolo che deve essere considerato con grande attenzione. Sono le cosiddette “Comunità di base” dell’America Latina dove, per quanto se ne riferisce o se ne legge, esistono dei dinamismi evangelici di coraggio, di gioia, di entusiasmo, di preghiera, che sono veramente a livello comune, cioè alla portata di tutti, anche se non raggiungono forme eroiche, aristocratiche, elitarie e magari si ispirano anche in parte a esse, ma diventano quasi il pane quotidiano.


Credo che questo sia uno dei fenomeni molto interessanti della Chiesa del nostro tempo, una specie di scoppio di santità popolare in cui è chiaro che “santità” non va inteso secondo quel rigore elitario dal quale poi nascono le canonizzazioni, ma va inteso piuttosto nel senso neotestamentario di dinamismo di grazia operante nella gente.


Il problema, la domanda, la tensione che viene espressa quando si parla tra noi di santità popolare è proprio questa: discernere lo Spirito nelle realtà che formano il tessuto quotidiano della vita della Chiesa. Qui non saprei andare molto oltre o, meglio, sarebbe troppo lungo e complesso andare oltre con la teoria. Preferirei fare qualche esempio e citare tre esperienze.


La prima esperienza: un incontro di Pentecoste fatto con quarantamila giovani due anni fa a San Siro [nel 1983, ndr], il modo con cui è stato vissuto, il tipo di partecipazione, il silenzio, la qualità della preghiera che si poteva sentire nell’aria. Dunque, un esempio di espressione di santità popolare.


Io poi ne ho avuto una conferma nella lettera di un giovane che ha avuto in quella notte l’intuizione di un cammino, di un salto coraggioso, di un cambio di rotta nella sua vita, portato da quella coralità e gustando la scoperta del mistero del Vescovo, a cui poi ha scritto, in un dialogo personale, come se avesse incontrato da sempre questa esperienza.
Un altro esempio può essere dato da qualcuna delle cerimonie, degli incontri per il Congresso eucaristico. Penso, per esempio, all’ultimo incontro al Gallaratese [22 maggio 1983, ndr]: la pioggia, il fango, la fatica, la stanchezza e tutto a un certo punto ricomposto, ricollegato nell’Eucaristia, nella presenza del Papa e quindi in una sensazione di un cammino che tocca un po’ tutti, che non lascia indifferente nessuno, di cui poi ho avuto tante espressioni verbali, scritte, testimonianze che fanno esclamare: c’è un cammino anche per una massa, per un’ampia comunità.


Un terzo esempio è la processione con la croce di san Carlo, in cui sono stati vissuti da tanti degli analoghi fenomeni di trascendimento del proprio ristretto angolo personale per collegarsi in una intenzione di servizio a una città, a una società sotto il segno della croce, che può veramente costituire un momento di dinamismo spirituale autentico.


Il fondamentale ruolo dei laici

Presentiamo in questa pagina un ampio estratto da “Un compito per tutti: essere santi” (1985), uno dei testi inediti del cardinale Carlo Maria Martini ora raccolti, dalla casa editrice In Dialogo, nel volume “Cristiani coraggiosi” (pagine 192, euro 15,90). Pronunciati prevalentemente nell’ambito degli incontri con l’Azione Cattolica, gli interventi sono accomunati dalla riflessione sul ruolo dei laici nella Chiesa e nel mondo contemporaneo, in singolare consonanza con il magistero di papa Francesco, di cui nel libro viene riprodotta la lettera sul laicato datata 19 marzo 2016. “Cristiani coraggiosi ”è accompagnato da una attenta introduzione di monsignor Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara.

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