venerdì 11 agosto 2023
“La storia da dentro”, libro postumo del narratore morto a maggio, è un oggetto letterario ibrido: romanzo, memoriale autobiografico, collezione di consigli. Ma a vincere è il non detto della poesia
Lo scrittore britannico Martin Amis, morto il 19 maggio scorso a 73 anni

Lo scrittore britannico Martin Amis, morto il 19 maggio scorso a 73 anni - Ansa

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Dichiarando di voler spiegare «come scrivere», l’autore britannico imbastisce invece un testo difficile da catalogare Forse è uno stratagemma per consentire al romanzo di sconfinare nei territori della poesia

I consigli degli scrittori andrebbero sempre accolti con prudenza. Anche in letteratura, infatti, l’eccezione conta spesso più della regola: l’autore sa che sarebbe più facile o addirittura più efficace cavarsela seguendo una certa consuetudine, ma per qualche motivo preferisce deviare, divagare, contraddirsi. Capita, per esempio, che un narratore celebre per la sua sottigliezza raccomandi di astenersi dalla sottigliezza medesima in un libro che è in realtà una celebrazione pressoché ininterrotta dell’implicito e del non dichiarato. Il narratore è Martin Amis, morto il 19 maggio scorso all’età di 73 anni, negli stessi giorni in cui al Festival di Cannes veniva proiettato il film che il regista Jonathan Glazer ha tratto dal suo romanzo La zona di interesse. Il libro nel quale Amis fissa precetti che poi non rispetta è invece La storia da dentro, magnificamente tradotto da Gaspare Bona per Einaudi (pagine 682, euro 25,00).

Apparso in inglese nel 2020, si presenta con un sottotitolo, Come scrivere, che lascerebbe presuppore una sorta di manuale, sia pure di alta classe. Alla prova dei fatti, è un oggetto letterario di natura ibrida, in parte romanzo, in parte memoriale autobiografico, in parte – appunto – collezione di consigli rivolti a un misterioso interlocutore, le cui generalità rappresentano uno dei non pochi enigmi che il lettore è invitato a sciogliere per conto proprio.

Provando a schematizzare, La storia da dentro è una lunga meditazione sullo scorrere del tempo, sul morire e sulla morte. Del resto, di che cos’altro dovrebbe occuparsi la letteratura? Della caducità certamente, e del suo opposto, che è l’amore. E così, se dedicataria e a tratti coprotagonista del racconto è la moglie di Amis (la scrittrice Isabel Fonseca), a occupare di prepotenza la scena è in effetti un personaggio femminile di finizione, la sfuggente Phoebe Phelps, una sorta di fantasma erotico che finisce per insidiare le sicurezze più profonde dello scrittore, a partire da quella sulla propria identità artistica e personale.

Già nel 2020, nell’autobiografico Esperienza, Amis si era misurato con la figura del padre Kingsley, scrittore a sua volta. Quella delle famiglie d’arte è una vicenda sempre complessa, che nel caso degli Amis si complica ulteriormente sia sul versante privato (separatosi dalla moglie, Kingsley si risposò con la romanziera Elizabeth Jane Howard, molto nota anche in Italia grazie alla Saga dei Cazalet) sia su quello politico: a differenza del padre, transitato dal comunismo al conservatorismo, Martin fu per tutta la vita un intellettuale orgogliosamente progressista. Nelle prime pagine della Storia da dentro, ambientate all’inizio del 2016, lo troviamo intento a formulare una duplice, fallimentare profezia: Donald Trump non ce la farà mai a farsi eleggere presidente degli Stati Uniti, i cittadini britannici non saranno così sprovveduti da votare a favore della Brexit… Come è andata lo sappiamo e lo sa lo stesso Amis, che non perde occasione per sdoppiarsi ancora una volta, facendo sfoggio di quella sottigliezza dalla quale suggerisce di rifuggire.

A voler seguire le istruzioni impartite dallo scrittore, tre sono gli ambiti o gli espedienti interdetti al romanzo. Il primo è il sogno, la cui descrizione è fieramente sconsigliata. Il secondo è il sesso, sempre a rischio di banalità e cattivo gusto o, peggio, di banalità di cattivo gusto. Il terzo e più importante è la religione, dicitura sotto la quale Amis fa convergere ogni convinzione ideologica e dogmatica: da questo punto di vista, la ricusazione del cattolico Graham Greene, suo primo punto di riferimento letterario durante gli anni della formazione, va di pari passi con la ridicolizzazione del realismo socialista e di ogni altra pretesa arte di regime. Nella Storia da dentro, come in tanti altri suoi testi, Amis ha giudizi molto severi nei confronti delle istituzioni religiose, compresa la Chiesa cattolica. Resta tuttavia significativo il fatto che anche per lui la dimensione spirituale non sia in assoluto estranea alla letteratura. Al contrario, è uno degli elementi costitutivi della poesia, ma non del romanzo e tanto meno del saggio.

Tutto chiaro, non fosse che La storia da dentro smentisce metodicamente il suo autore. Non solo il libro si chiude con la descrizione di un sogno e si dilunga sul ménage sessuale imposto dalla solita Phoebe Phelps, ma è anche – se non principalmente – un tentativo di venire a patti con quel tanto di invisibile che si rivela allo sguardo umano nel contatto con la morte. Amis segue il declino di tre amici che sono stati fondamentali nella sua vita: il premio Nobel Saul Bellow, eletto a maestro nella disciplina del romanzo; il poeta Philip Larkin, già sodale del padre Kingsley; Christopher Hitchens, corrosivo polemista (tra i suoi bersagli ci fu anche Madre Teresa di Calcutta) coetaneo di Martin e suo compagno nell’avventura del giornalismo. Dunque, procedendo a ritroso, un ateo dichiarato e incline all’irriverenza, un agnostico tutto compreso nel proprio mondo interiore e un ebreo «non-non osservante», come lo definisce Amis, che a più riprese ammette di essere sorpreso dal riemergere di riferimenti religiosi nella prosa cristallina di Bellow.

Sarebbe inutile e perfino ingiusto trarre una qualsiasi conclusione. Un libro come La storia da dentro va preso per quello che è, ammirando il molto che c’è da ammirare (su tutto, l’eleganza con cui Amis alterna registri espressivi differenti all’interno di un’unica frase) e dissentendo ogni volta che se ne avverte la necessità (l’irrisione dell’idea stessa di Dio personale è troppo insistita per passare inosservata). E poi ci sono i consigli su «come scrivere», che Bona riesce a far transitare con precisione dall’inglese all’italiano e dai quali, volendo, si può trarre grande vantaggio. A patto di ricordare che l’eccezione vale più della regola, si capisce. Lo conferma il libro stesso, la cui renitenza all’iscrizione in un solo genere letterario può essere considerato uno stratagemma per consentire al romanzo di sconfinare nei territori della poesia. Questo, almeno, è quanto accade sul letto di morte dell’impenitente Hitchens, quando la moglie si allontana dal cadavere. «Andiamo. Ormai non resta più niente. Lì dentro – dice – non c’è più nulla. È solo… spazzatura ». Ma se qualcosa non c’è più, significa che prima qualcosa c’era. Sarà una sottigliezza, d’accordo. Però è di sottigliezze che si nutre la letteratura: Martin Amis lo sapeva bene.

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