martedì 13 ottobre 2020
Daniele Piccini dedica un’importante monografia al grande poeta fiorentino, portando alla luce elementi finora trascurati, come la centralità della teologia paolina nei suoi versi
Il poeta Mario Luzi (Castello, Firenze, 20 ottobre 1914 – Firenze, 28 febbraio 2005)

Il poeta Mario Luzi (Castello, Firenze, 20 ottobre 1914 – Firenze, 28 febbraio 2005) - -

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«Ho scritto sul fatto e non sul principio», dichiarava Mario Luzi nel 1983 introducendo La cordigliera delle Ande, il volume einaudiano nel quale erano raccolte le sue traduzioni. Apparentemente riferita al furore teoretico imperante nella Firenze d’anteguerra, la dichiarazione assumeva un valore del tutto particolare all’inizio di un decennio durante il quale si sarebbe fatto di tutto per ridurre ad astrazione l’esperienza letteraria. Da fenomeno a noumeno, per dirla con le categorie care a Oreste Macrì, il critico che più di ogni altro sostenne la vicenda di quella «generazione forte» che ora, giustamente, Daniele Piccini riporta in primo piano nel suo saggio su Luzi (Salerno, pagine 364, euro 24,00). Anche se dedicato a un unico autore, peraltro centrale nel nostro Novecento, il libro si inserisce all’interno della più vasta riflessione nella quale Piccini – italianista all’Università per stranieri di Perugia e a sua volta poeta di riconoscibilissima dizione – è impegnato da diverso tempo e che ha trovato una convincente sistemazione in quel documento di poetica che è La gloria della lingua, edito da Scholé lo scorso anno. Anche per Piccini, come per Luzi, si tratta di ragionare «sul fatto e non sul principio»: su come la poesia effettivamente si manifesta e non su come ipoteticamente dovrebbe essere.

Non per niente, nella sua nuova monografia Piccini riserva molto spazio alla ricostruzione della biografia di Luzi, preoccupandosi di inserirla in un contesto generazionale, appunto, nel quale ritroviamo tanti poeti nati negli anni Dieci del secolo scorso: i fiorentini Piero Bigongiari e Alessandro Parronchi, anzitutto, e poi Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni, Vittorio Sereni, Franco Fortini. Senza dimenticare i critici loro coetanei, da Carlo Bo allo stesso Macrì. Nato nel 1914 e morto nel 2005, Luzi è stato uno dei più longevi di quella nidiata e senza dubbio tra i più irrequieti nella fedeltà a una missione poetica che dall’ipnotico esordio del 1935 con La barca si snoda fino all’ultimo libro licenziato in vita dall’autore, Dottrina dell’estremo principiante del 2004, che fin dal titolo ribadisce la necessità di una continua messa in discussione del farsi e del rivelarsi della poesia. Per riprendere ancora una volta le parole di Luzi, generosamente e sempre opportunamente citate da Piccini nel suo saggio, «è insomma una poesia che ripensa se stessa e inizia a riappropriarsi delle sue proprietà di espressione». Nell’avventura di Luzi gli effetti di questo dibattito interiore si fanno più evidenti con la pubblicazione di Nel magma, il libro del 1963 nel quale alla nitidezza del verso si contrappone un andamento quasi prosastico. All’epoca la svolta lasciò sconcertati lettori come Cristina Campo e Tommaso Landolfi, fino a quel momento più che persuasi del valore di un Luzi che aveva condiviso le istanze dell’ermetismo, sia pure evitando di assimilarsi del tutto alle i- stanze del movimento.

Eppure è proprio a partire da quell’apparente deroga che si sprigiona la «metamorfosi» che contraddistigue le grandi opere della maturità, libri come Al fuoco della controversia del 1978 e il programmatico Per il battesimo dei nostri frammenti del 1985, con l’immagine del cadavere di Aldo Moro «acciambellato» nella «sconcia stiva» dell’utilitaria, su su fino a Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, il capolavoro del 1994 nel quale la precedente dissoluzione delle strutture poematiche si ricompone in una diversa armonia, che tiene conto dell’imperfezione, di quel cerchio che non si chiude al quale lo stesso Luzi ripetutamente accenna nelle sue riflessioni. Uno dei meriti del libro di Piccini sta nel rivendicare l’importanza della produzione saggistica di Luzi, nella quale si riconosce «una sorta di ampliamento e di sviluppo della ricerca creativa, in un connubio difficilmente scindibile ». Un esame comparato dei rispettivi filoni permette non soltanto di confermare la consistenza di elementi già noti (l’influsso esercitato dal pensiero di Teilhard de Chardin, l’ammirazione congiunta per Dante e Leopardi), ma anche di approfondire spunti solitamente meno immediati. Se infatti per la generazione degli anni Dieci era stato determinante il riferimento alla teologia del Logos sviluppata da Giovanni nel suo Vangelo, con il passare del tempo in Luzi si fa sempre più forte il richiamo esercitato da san Paolo, in una complessità di rimandi di cui si trova traccia anche nel serrato confronto con Caproni. Non meno illuminanti, nell’uso che ne fa Piccini, sono le prose d’invenzione, come la Biografia a Ebe del 1942, nella quale già si intravede la sensibilità drammaturgica di cui Luzi, maestro e insieme «estremo principiante», darà prova nel Libro di Ipazia, in Rosales e nella Passione, la formidabile Via Crucis composta per il Venerdì Santo del 1999 su invito di Giovanni Paolo II, il Papa che non aveva smesso di essere poeta.

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