venerdì 18 marzo 2016
Mao, icone del “paradiso cinese”
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Non fossero parole di Mao Zedong che le pronunciò nel 1943, a Yan’an, quando era già presidente del Partito comunista cinese, potrebbero rappresentare il principio universale della comunicazione pubblicitaria, dunque un ideologia perfetta per il capitalismo: ascoltare i desideri dell’individuo, ripresentarli come proposta perfezionata che lo spinga a una adesione alla promessa pubblicitaria, fino a farla propria, e ripetere il ciclo all’infinito, per un controllo sempre più specifico, e razionale, del desiderio delle masse. Sostituite alla parola individuo quella di consumatore e il gioco è fatto. Che cosa disse Mao? Disse che si trattava di «raccogliere le opinioni delle masse (sparse e disordinate) e portarle di nuovo (generalizzate e sistemate in seguito a uno studio), tra le masse, propagandarle e spiegarle, farle diventare idee delle masse stesse, affinché le masse sostengano queste idee e le traducano in azione; e, al tempo stesso, controllare attraverso l’azione delle masse la giustezza di queste idee...» e così via; ripetendo il ciclo della “rieducazione”, o del lavaggio del cervello, «ogni volta, queste idee diventeranno sempre più giuste, più vitali, più razionali». Forse ha origine da questa idea quello strano ibrido a due teste che è il sistema cinese: collettivista sul versante politico, capitalista su quello economico. 

Mao nelle sue idee dimostrava di essere davvero il “grande timonie-re”, anzi, rispetto ai dittatori dei grandi regimi totalitari del Novecento, Mao dimostra anche nella propaganda di essere più moderno. Lo si comprende osservando i manifesti cinesi fra il 1949 e il 1983, dove è chiaro fin da subito che anche nell’immagine il maoismo è più efficace del comunismo sovietico. A Forte dei Marmi, nelle stanze di Villa Bertelli, da domani si potrà comparare meglio sfilando davanti ai manifesti della propaganda che vengono esposti fino al 17 aprile nella mostra China. Rivoluzione evoluzione, a cura di Massimo Scaringella. Il catalogo scandisce con le immagini, accompagnate da testi-didascalia, i contenuti della comunicazione maoista. La mostra nasce dalla collezione riunita a partire dalla metà degli anni Novanta dal-l’artista Steven Vaughin e da Rodney Cone, studioso delle relazioni fra Cina e Russia, entrambi nella Fondazione Hafnia. All’epoca quei manifesti avevano poca popolarità, tanto che molti cinesi li nascondevano sotto al letto. Era in corso la trasformazione del dopo Mao, ma se certe questioni ideologiche sono finite in cantina, in realtà la pelle del gigante asiatico non è cambiata, si è solo conformata ai tempi (quindi è giustissima l’associazione nel titolo fra rivoluzione ed evoluzione, una specie di declinazione postmoderna dell’aufhebung hegeliana, cioè, cambiare per conservare). 

Per alcuni decenni, quando i lunghissimi postumi della Seconda guerra mondiale si protraevano oltre ogni logica (salvo quella dei diversi imperialismi: economici, mi-litari, ideologici), non si poteva nemmeno sfiorare il tema della propaganda dei regimi, in particolare di quelli fascisti e nazisti. La resistenza del mondo sovietico fino all’89 e del comunismo cinese consentivano alcune deroghe. Poi, lentamente, ne- gli anni Ottanta si è riaperto il caso «arte e potere» durante i regimi: una delle prime mostre a sdoganare l’argomento fu quella del 1982 a Milano sugli anni Trenta, dove si vide che in quegli anni in Italia l’arte fu più viva che mai, e spesso, nonostante le compromissioni politiche, di altissimo livello. Recentemente si è cominciato a riscoprire anche il realismo sovietico, dovendo constatare che gli artisti sotto Stalin e anche dopo erano spesso grandi pittori o fotografi oppure architetti. Ma, come è detto nel catalogo della mostra di Forte dei Marmi, l’immaginario di propaganda del maoismo era diverso: «più utopico e romantico».

Non la retorica militare e imperialista sovietica e nazista (nel 1937, per l’Esposizione Universale di Parigi, il confronto fra Germania e Urss era proprio di questo genere: i due padiglioni si guardavano con le loro torri altissime, sulle quali da un lato svettavano l’aquila dei Reich e, dall’altro, la statua alta 25 metri dell’Operaio e la kolkoziana della scultrice Muchina, oggi riscoperta); ma l’ideale di una società armonica, dove le immagini dovevano «riprodurre un sentimento di felicità e di innocenza rurale più che l’industrializzazione e il militarismo». L’insegnamento del mondo rurale fu, infatti, alla base del progetto di nuova Cina di Mao; ma altri erano i temi forti nei manifesti: l’aiuto reciproco insegnato fin dalla più tenera età, avere cuore e intenzioni pure, amare il proprio Paese e credere all’impresa rivoluzionaria. Un ruolo importante venne riconosciuto alle donne (in alcuni manifesti figurano alla guida dei trattori in campagna), per emanciparle dall’autorità paterna e del marito. Era un cammino già avviato negli anni Trenta, dove in Cina il lavoro femminile era più considerato, tanto che le donne percepivano un salario identico a quello degli uomini impegnati nel settore industriale. I bambini sono figure emblematiche nei manifesti: la loro educazione e l’armonia nelle famiglie erano dati costitutivi della società cinese: «Il sentimento tradizionale di lealtà verso la famiglia e l’imperatore venne sostituito con l’obbedienza e la lealtà al partito e agli interessi di classe». Proprio le immagini dei bambini, spesso dipinte e disegnate con uno stile assai moderno, da illustrazione giornalistica quasi, sono i testimoni pubblici della società radiosa del domani. La ragione per cui questo immaginario è così diverso da quello degli altri regimi del Novecento, e sembra quasi anticipare certi sviluppi della pop art occidentale (magari influenzandone un po’ l’aspetto), sta forse nello scarsa apertura internazionale che la Cina ha vissuto per parecchio tempo anche sotto Mao: orgoglio e nazionalismo di chi ha ereditato, magari per profanarlo, una cultura millenaria. Gli scambi culturali fra Cina e resto del mondo furono dunque piuttosto limitati, ma questo in un certo modo ne preservò il genio visionario. Mao aveva tutti i tratti del leader comunista di nuova generazione: carismatico, depositario di una antica tradizione culturale, scaltro dominatore e capace di tenere in pugno un mosaico etnico complesso, spietato e “sacro” come un guru che sa mostrare al popolo il suo destino trionfante (qui, Warhol, ne ha colto la sostanza, rendendolo una icona fuori dal tempo). In Cina l’individuo è spesso meno di un numero, e il maoismo ha fatto milioni di morti (come lo stalinismo): quel che prevale è il sistema e la sua efficienza (basti ricordare l’infanticidio femminile praticato come mezzo di regolamentazione demografica anche in anni recenti). Lo spirito è espresso da Deng Xiaoping: «Non importa se il gatto sia bianco o nero, l’importante è che catturi i topi». Un video diffuso recentemente dall’agenzia di stampa statale Xinhua – dove il presidente cinese Xi Jinping fa la sua apparizione all’interno di un filmato che in tre minuti, associando musichette, cartoon e fotografie reali – annuncia il tredicesimo piano economico quinquennale della Cina, di cui ancora poco si capisce. Negli Usa, dove è stato fatto girare, ha destato attenzione anche per la comunicazione molto moderna, molto occidentale, come già fece Mao e come hanno continuato a fare i pittori cinesi dopo di lui, di cui scoprimmo la bravura nella ormai lontana Biennale di Venezia del 1993.
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