martedì 18 giugno 2019
«Sono strutturati per creare attesa e frustrazione e cambiano la nostra vita interiore. Telefonia e società si sono fusi insieme con rischi per la libertà e i diritti». Parla l'esperto Geert Lovink
Geert Lovink, Università di Amsterdam

Geert Lovink, Università di Amsterdam

COMMENTA E CONDIVIDI

«I social media riformattano la nostra vita interiore». L’individuo è sempre più inseparabile dalla piattaforma, e il social networking diventa sinonimo di sociale' secondo Geert Lovink, docente all’università di Amsterdam e uno dei maggiori studiosi di nuovi media, di cui Bocconi Editore ha appena pubblicato Nichilismo digitale. L’altra faccia delle piattaforme (pagine 198, euro 22).

Il titolo originale del suo libro è Sad for design, tristi per progetto? Qualcuno dunque vuole la nostra tristezza?

In questi duri tempi neo-liberali di precarietà e crescente disuguaglianza, molti soffrono di solitudine, depressione e esaurimento. I giovani sono vulnerabili e inclini alle insicurezze. Vivono sui social media ventiquattro ore su ventiquattro. Ho unito queste due condizioni e ho scoperto quella che definisco “tristezza tecnologica”, una condizione sottile e non medica, paragonabile alla noia. Così quando è troppo, rompiamo le righe e piangiamo per un breve momento. Non possiamo più sopportare di aspettare l’altro. Cioè? Anni fa ho scritto sulla “psicopatologia del sovraccarico di informazioni”, in linea con quanto sosteneva Franco Berardi. Ma nel 2017 c’è stata un’accelerazione quando i dissidenti della Silicon Valley hanno confessato di come manipolavano emotivamente gli utenti con il software design. Cercavano prestazioni umane approfondendo le nostre dipendenze dai dispositivi attraverso la percepita presenza online di persone che ci sono care, usando i like, con indicatori di tempo e spunte per mostrare che qualcuno ha letto un messaggio ma non risponde. Questo ci rende tristi. Abbiamo bisogno di una pausa, ma non ce la facciamo. Mettiamo via il cellulare e un momento dopo lo riprendiamo chiedendoci, ci ha risposto?

È tanta la loro influenza sulle nostre vite?

Abbiamo bisogno degli smartphone per organizzarle. In più essi ci rendono partecipi delle vicende del mondo come è accaduto con l’incendio di Notre Dame o gli attentati in Sri Lanka. Grazie a loro ci occupiamo della famiglia, gestiamo scuola e lavoro e siamo pronti, subito, quando i nostri cari ci mandano un messaggio. Il ritmo implacabile degli aggiornamenti in tempo reale e l’intimità di avere con noi un dispositivo così piccolo e così vicino al nostro corpo e alla nostra anima sono notevoli. Telefono e società si sono fusi insieme.

Come siamo giunti a un uso consumistico di questi strumenti?

Clicchiamo, diventiamo follower, scorriamo e siamo interattivi come mai prima d’ora. Non abbiamo più idea di come queste macchine funzionino e abbiamo perso pure le competenze su come programmarle. L’alfabetizzazione informatica si è deteriorata drammati- camente. A scuola, la diffusione dei nuovi media non ha potenziato gli studenti. Invece di renderli indipendenti attraverso le competenze di programmazione, ci siamo ritrovati con terribili problemi di distrazione e insegnanti e genitori impegnati a sorvegliarne l’uso.

Come uscirne?

Dobbiamo ridefinire i media come spazio sociale, fare televisione e radio insieme, come avviene con il podcast. Gli strumenti di produzione non sono mai stati così economici. Ciò che manca è l’immaginazione sociale.

Quale ruolo hanno oggi le piattaforme?

Le piattaforme sono recenti. Le abbiamo accettate facilmente perché il loro design è così fluido che non ci accorgiamo di usarle. Non sono come blog o siti del passato. Lavorano su un metalivello: riuniscono giocatori diversi, domanda e offerta, quindi calcolano i prezzi, fanno offerte, informano sul taxi più vicino, la stanza più economica. L’economia della piattaforma è reale, in quanto diventa agricoltura, logistica e organizzazione visibili. Sia l’offerta che la domanda sono considerate concorrenti, ma esiste un’unica piattaforma. Quello che possiamo fare è democratizzare o regolamentare le piattaforme smantellando la loro centralizzazione. Abbiamo bisogno di alternative peer-to-peer che funzionino in modo decentralizzato, con la stessa efficacia delle app attuali.

Lei, nel libro, suggerisce un parallelo tra l’Olocausto e la registrazione a una piattaforma...

È un paragone oscuro. È in Germania che il movimento di protesta contro la violazione sistematica della nostra privacy da parte della Silicon Valley e dell’apparato di sicurezza dello stato è più forte. Possiamo imparare molto dalle loro battaglie contro la macchina di sorveglianza. Dimentichiamo spesso il libro L’IBM e l’Olocausto di Edwin Black che racconta il ruolo dei computer nella selezione e nello sterminio degli ebrei europei. Mia madre mi faceva partecipare alle manifestazioni contro il profiling etnico per il censimento. Oggi i giganti della rete e i governi raccolgono su di noi molti dati, e per le conseguenze basta guardare al ruolo di Facebook nel genocidio dei Rohingya in Myanmar. O all’uso di Facebook Live durante il massacro di Christchurch. Il punto è che la violenza tecnologica di oggi è invisibile e astratta.

Metterci offline è la soluzione?

C’è bisogno di un momento di silenzio. Siamo esausti e abbiamo bisogno di una pausa. Questo spiega la popolarità dello yoga e della mindfulness. Facebook e Google ci hanno pensato prima di noi e offrono app che disattivano i nostri telefoni. Non è nel loro interesse che il malessere gli si ritorca contro. Entropia e indifferenza possono rendere i loro database pieni di preziose informazioni del tutto inutili.

Come immagina l’evoluzione di internet nei prossimi anni?

Due tendenze crescono in parallelo e alla fine collidono. Da un lato siamo risucchiati ulteriormente nell’abisso dei social. Non è spaventoso. Al contrario è un modo dolce di sprecare il nostro tempo. È questo il modo in cui sperimentiamo l’automazione. Gli algoritmi ci catturano e ci tengono occupati. Siamo entrati in uno stato che io chiamo tecno- inconscio. Dall’altro, visto che ci si ritrova lì in miliardi, da queste piattaforme provengono i conflitti fino al livello della guerra informatica. Deep fake e furto d’identità sono solo l’inizio. Noi europei vogliamo avere un ruolo in questa partita? Dove sono le nostre alternative? Esistono, dobbiamo solo iniziare a usarle per scatenare un cyber-risveglio, la risurrezione del sociale.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI