domenica 3 maggio 2009
Nel Medioevo consumare un sanguinaccio di maiale era anche la prova che non si apparteneva a gruppi ereticali (come i catari, che interdicevano l’alimentazione carnea). La straordinaria abilità degli spagnoli nel preparare prosciutti e sanguinacci va riferita anche al tempo nel quale era per molti necessario provare, mangiando, di non essere né ebrei, né musulmani Lupo e maiale erano creature prese a simbolo di due vizi, avidità e lussuria: e la mancanza di purezza caratteriale del porco si poneva in correlazione con la sua sporcizia esteriore. Ancora, si associava il porco alla gola data la sua voracità e il carattere onnivoro delle sue abitudini alimentari
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Un vecchio proverbio medievale dice che l’agnello (o il bue) è buono da vivo e da morto, il cane è buono da vivo e cattivo da morto, il maiale è cattivo da vivo ma buono da morto e il lupo è cattivo da vivo e da morto. Così, sulla sintassi oppositiva di bontà e di cattiveria, si ordinavano i quattro (o cinque) animali-chiave della nostra società di contadini, di allevatori e di pastori: quelli allevati per fornire cibo (o, nel caso del bue, anche lavoro), il fedele custode della loro sicurezza e il nemico predatore. Ma il maiale, che condivideva da morto al qualità dei miti bue ed agnello, da vivo era semmai avvicinato al pericoloso avversario, quello nel quale si riscontravano addirittura caratteristiche suscettibili di un’interpretazione demonologica. Lupo e maiale erano, ancora, creature prese a simbolo di due vizi, l’avidità e la lussuria: e la mancanza di purezza caratteriale del porco si poneva in correlazione con la sua sporcizia esteriore, il suo sguazzare nel rivoltante liquame, l’odore rivoltante che dai porcili promana. Ancora, si associava il porco alla gola data la sua voracità e il carattere onnivoro delle sue abitudini alimentari. A prima vista, queste valutazioni si direbbero il risultato di un antico miscuglio di astio e di ribrezzo. Nell’Odissea, la maga Circe muta in porci alcuni compagni di Ulisse. La Bibbia enumera dieci tipi di mammiferi quadrupedi dei quali l’ebreo è autorizzato a cibarsi in quanto tahor ("puri"). Segno della loro purezza è il fatto che sono erbivori ruminanti e hanno gli zoccoli longitudinalmente tagliati. Il maiale, che presenta la seconda caratteristica ma non la prima, è tamé ("impuro"). Le regole di purezza alimentare islamica (hallal), pur essendo meno rigorose e minuziose della kosherut ebraica, mantengono il divieto del maiale. E il celebre passo evangelico nel quale Gesù consente ai demoni espulsi di rifugiarsi in un branco di maiali non lontano dal luogo dell’esorcismo (ma gli animali, impazziti, si gettano in mare), parrebbe alludere a un qualche rapporto tra i spiriti e animali impuri, oltre a giocare un brutto scherzo ad allevatori evidentemente sgraditi agli ebrei osservanti (potrebbe trattarsi, in quel caso, di maiali allevati dai romani, o da siriaci o altri stranieri, o addirittura da ebrei "grecizzanti", poco rispettosi delle regole kosher). Che l’avversione ebraica per l’alimentazione a base di maiale avesse ragioni etnopolitiche (la necessità, sancita dalla legge mosaica, di distinguersi dalle abitudini dei circostanti popoli pagani, dato anche lo stretto rapporto tra alimentazione e sacrificio, tra cibo e culto) è plausibile, ma non comprovato da indizi sicuri. Che essa avesse ragioni igieniche – il clima caldo, che renderebbe le carni suine troppo pesanti e facili a guastarsi – è pregiudizio diffuso ma errato: il maiale trionfava e trionfa sulle tavole di genti abituate a climi torridi, dall’antico Egitto (dove il porco era animale collegato sia alla dea celeste Nut al malvagio dio Seth) alla Polinesia e al mondo caraibico, che anzi predilige addirittura i sanguinacci, cioè i piatti a base di grasso e di sangue di maiale.D’altronde il quadro dell’avversione non era, nell’universo mediterraneo antico (non parliamo di altre culture, come la cinese, dove il maiale è l’ultimo dei segni dello zodiaco e simboleggia la virilità), per nulla univoco. Sempre nell’Odissea il servitore più fido di Ulisse è il porcaro Eumeo, che proprio data la sua professione frequentava più da vicino la corte di Itaca: i pretendenti, i "Proci", amavano cibarsi soprattutto di carni suine. Ritroviamo puntualmente tale uso in tutti i popoli indoeuropei, dagli Elleni ai Celti ai Germani ai Latini agli Slavi. E agli usi alimentari corrisponde puntuale la tradizione cultuale. Nei misteri eleusini, si sacrificava un maiale alla dea Demetra. Una femmina del porco (la "troia"), spesso di color bianco, che allatta i piccoli, s’incontra sovente nei miti di fondazione etrusco-italici, celtici e germanici. Il porco o la troia compaiono come simboli o come animali accompagnatori della dea germanica Freya e della dea gallese Cerridwen. Nell’universo celtogermanico il maiale si confonde spesso con un animale considerato eroico e guerriero, il cinghiale, oggetto di cacce sacre e di banchetti sacri. Peraltro, come risulta anche nell’iconografia medievale, i porci del tempo erano molto simili ai cinghiali: li vediamo zannuti, di setole lunghe, di colore scuro o nero spesso attraversati da una caratteristica fascia bianca dalla schiena al ventre (si tratta di una razza che si è riusciti a selezionare di nuovo nella Toscana meridionale, la "cinta senese"). Sappiamo che nel mondo europeo il maiale è in un centro senso al centro dell’alimentazione carnea in quanto animale forte, che si nutre di tutto (per quanto si tenda ad alimentare con sole ghiande di quercia la specie europea più pregiata, il patanegra castigliano-andaluso), che si utilizza per intero – comprese ossa e cartilagini –, che si presta a venir conservato secondo diverse preparazioni che variano col variare del clima, dell’altitudine, delle risorse ambientali, delle tradizioni: arrostito o bollito o crudo, salato o seccato, affumicato o speziato (cioè cosparso di pepe, di peperoncino, di ginepro) oppure immerso in sostanze varie (salamoia, soluzione alcoolica a varia concentrazione, lardo sciolto, olio). Ma nella tradizione cristiana europea esso è molto importante anche sul piano degli usi e dei rituali folklorici. Non stupisce che esso sia associato a un santo specifico, l’eremita egizio sant’Antonio divenuto poi patrono dell’Ordine degli "antoniani" di Vienne, noti monaci ospitalieri che nell’XI secolo usavano curare una crudele epidemia, il "fuoco di sant’Antonio" (herpes zoster) con un unguento il cui ingrediente-base era appunto grasso suino. La festa di sant’Antonio abate cade appunto il 17 gennaio, subito all’indomani della macellazione annuale del porco, che si usava eseguire tra il dicembre e il gennaio (come si vede in numerosi "calendari" medievali dipinti o scolpiti) e che precedeva di poco l’inizio della Quaresima con la sua festa di "addio alla carne" (oh carnis, vale!, stando a un’antica etimologia). Ed eccoci giunti, dall’animale "impuro", al "re del carnevale", sacrificato in quel periodo invernale tra il dicembre e il febbraio che fin dall’antichità romana è un momento sacro e terribile dell’anno: le libertates decembris, che mimano il caos cosmico e sociale associato alla fine dell’anno e che è necessario restaurare con un ordine nuovo sancito dal sacrificio, e il pauroso mens februarius, quello delle epidemie degli uomini e animali che vanno preservati purificandoli (con cerimonie durante le quali essi sono fatti passare tra roghi accesi) e del periodico ritorno dei morti sulla terra, da placare con riti ed offerte. Tale difficile passaggio dell’anno viene dominato dalla festa crudele del sacrificio del maiale e del ricco pasto collettivo che prelude alla sobria alimentazione primaverile. Questi lontani usi pagani vennero "acculturati" e mantenuti nel mondo cristiano attraverso l’alternarsi del Carnevale e della Quaresima con i loro sacrifici, ai quali s’intrecciavano e si sovrapponevano quelli agrari propedeutici alla cacciata dell’inverno (dalla "Morte del Re Carnevale" al "Rogo della Vecchia" o al "Sega-la-Vecchia").La ricca grigliata invernale e l’allegra selezione e preparazione delle carni da conservare non vanno mai – o quanto meno non andavano – disgiunte da un valore religioso che sottintendeva un grande rispetto per gli animali sacrificati e una precisa volontà di purificare anche spiritualmente il cibo che si andava preparando e che avrebbe aiutato a superare i momenti di carenza alimentare nell’universo contadino e pastorale. Così come molti cibi avevano un valore direttamente religioso. Consumare un sanguinaccio di maiale, ad esempio, era anche la prova che non si apparteneva a gruppi ereticali (come i catari, che interdicevano l’alimentazione carnea). La straordinaria abilità degli spagnoli nel preparare prosciutti e sanguinacci va riferita anche al tempo nel quale era per molti necessario provare, mangiando, di non essere né ebrei, né musulmani. La necessità che a ciò presiedeva si fondava certo, purtroppo, su un fatto duramente repressivo. Che ha comunque sortito effetti, gastronomicamente parlando, eccellenti. Le vie del Signore sono davvero infinite.
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