martedì 9 dicembre 2014
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Ripenso all’urlo di sua madre, la "Marona", entrata nella chiesa di Santa Maria dove don Concezio stava facendo – in quel Venerdì santo 1944 – la tradizionale coroncina in onore dell’Addolorata nell’altare ad essa dedicato: «Fiju, scappa! Te vau cerchénno li tedeschi!» («Scappa, figlio, i tedeschi ti stanno cercando!»). Io, chierichetto di 11 anni, c’ero e ricordo tutto di quei giorni: la strage di civili perpetrata a Leonessa (Rieti) 13 giorni dopo quella delle Fosse Ardeatine, 23 uccisi tutti insieme il 7 aprile 1944, alle ore 15.Non sono più molti, ormai, quelli che ricordano l’eccidio e le urla di dolore di quel venerdì santo; io quel giorno c’ero, e non posso dimenticare. E non nascondo che, andando a Leonessa, vado ogni volta al cimitero dove i martiri sono sepolti, a salutarli tutti, uno per uno, rileggendo ora l’una ora l’altra lapide, come quella d’una moglie e mamma con i suoi piccoli figli che scrive a ricordo del marito e padre: «Sono qui pietosamente composti i resti (di Ivano Palla) nella calma della morte, dopo l’orribile strazio dell’insensata tragedia del venerdì santo, ricordando di quanto dolore e lutto siano artefici l’uomo e il popolo che non temono Dio».Dopo l’urlo di sua madre, mio cugino don Concezio Chiaretti si fermò un po’, concluse la preghiera, e uscì dalla chiesa senza alcuna precauzione. I "tedeschi" (che comunque parlavano bene l’italiano, come disse al processo un testimone: «Ma che  tedeschi! Erano militi e ufficiali italiani!»…) lo catturarono subito e lo portarono con gli altri in piazza, dove si mise a pregare il breviario (lo stesso che poi si sporcherà di terra dopo l’esecuzione capitale). Perché i nazifascisti cercavano proprio lui? Il nome, la qualità e la fama di quel prete di 27 anni, cappellano militare della Julia, che se la intendeva con i giovani renitenti alla leva, disertori e "partigiani", non potevano essere sconosciuti alle autorità del tempo, tanto più che i fascisti conoscevano già l’attività di un altro Chiaretti di Leonessa: Antonio, che a Roma organizzava la forte cellula comunista Bandiera Rossa, responsabile di vari sabotaggi (vedi articolo a fianco, ndr).Eppure don Concezio non aveva aiutato solo i partigiani (aveva fondato il Cnl locale),  ma anche i fascisti. Una dichiarazione del 26 febbraio 1944, firmata da tre militi leonessani della Guardia Nazionale Repubblicana che indico solo con le iniziali (A.R., S.G., Z.V.), dal loro comandante (R.P.), da un elettricista testimone (A.L) e controfirmata da don Concezio Chiaretti, testimonia che i tre fascisti nei pressi di Villa Pulcini furono salvati dalla fucilazione da parte di un grosso manipolo (una quindicina) di partigiani che li avevano già svestiti, proprio per la mediazione di don Concezio, che quel giorno si trovava lì a cercare qualcosa da mangiare per suo fratello malato. Dopo l’8 settembre, infatti, il sacerdote si era dedicato alle opere d’assistenza: si ricordano suoi interessamenti per aiutare una famiglia ebrea che viveva a Leonessa e le visite nel carcere comunale ai giovani militari fuggiti in montagna per non essere trasferiti ai lavori forzati in Germania.Figlio di emigrati (era nato in Canada nel 1917), tornato in Italia don Concezio aveva frequentato le scuole degli Scolopi e poi il seminario ad Assisi; a quell’epoca s’avvolgeva nel tricolore e cantava con la sua bella voce baritonale l’inno di Vincenzo Bellini ne I Puritani: «Suoni la tromba! Intrepido/ io pugnerò da forte! Bello è affrontare la morte/ gridando "Libertà"!». Fu ordinato prete il 13 luglio 1941 a Leonessa, divenne vicerettore e insegnante nel seminario vescovile di Rieti, quindi cappellano militare degli alpini. Tornato in famiglia per malattia, dovette sostituire per la settimana santa i due parroci di Leonessa arrestati come "badogliani" e trasferiti a Rieti per essere processati (riuscirà a salvarli il vescovo Migliorini, ma usciranno dal carcere solo dopo la strage del venerdì santo).Torniamo ai 23 cittadini di Leonessa radunati in piazza, scelti perché "comunisti" secondo le direttive di una malafemmina che indicava le persone da uccidere per i motivi più vari: chi non aveva sorriso alla sua attività di attricetta da quattro soldi, chi non le aveva dato generi alimentari che lei pretendeva gratis, e così via. «Sembrava invasa da una furia d’inferno», dicono i testimoni; quando seppe della cattura dei due parroci, disse: «Bene! Due preti li hanno loro (i tedeschi), uno noi: sono tutti e tre!»: la donna infatti non perdonava ai tre sacerdoti i rimbrotti per il suo malcostume. Il giorno prima aveva fatto lo stesso nel suo minuscolo paese, Cumulata, dove fece trucidare tutti gli 11 uomini (si salvò solo un ragazzo che si buttò in una concimaia), uccidendo essa stessa il fratello e chiedendo anche l’uccisione della cognata: i tedeschi rifiutarono perché era incinta.
Il gruppo dei condannati leonessani fu dunque condotto ai piedi di un rialzo, mentre la gente andava radunandosi urlando, tenuta a bada dalle mitragliatrici. Don Concezio assolse e benedisse i morituri e la sua città; morì perdonando i suoi assassini, i quali senz’altro sapevano di religione come dimostra la scelta del tempo (il venerdì santo alle 15) e il luogo (un’altura fuori le mura di Leonessa, come il Calvario). I cadaveri furono poi portati su scale a pioli usate come barelle nella grande chiesa di San Francesco, ove già tutto era stato predisposto per la tradizionale processione del "Cristo morto"; la chiesa si riempì di sangue. Fu un altro Golgota con un Cristo in carne ed ossa, e lacrime e gemiti in quantità. Il giorno di Pasqua le campane non suonarono a festa per la risurrezione di Cristo, ma a lutto per i funerali. Si fecero una ventina di viaggi al cimitero per seppellire i morti.A Leonessa in quell’aprile le vittime furono complessivamente 54. Di fatto la spedizione fascista-tedesca della Settimana santa ebbe anche l’intenzione di dare una lezione alla città, ormai nota come covo di ribelli. Posso dirlo pure per motivi familiari; in quei giorni era tornato a casa, dopo la sconfitta italiana in Libia, lo zio Francesco, autista e camionista, che fu ricercato da un ufficiale tedesco (altoatesino) per riparare un loro autocarro che si era guastato. Lo zio andò nella rimessa "di Rizziero" nei pressi di Porta Spoletina e fu esortato dall’ufficiale a non uscire e a non farsi vedere in giro perché quel giorno sarebbero avvenute cose «terribili» a Leonessa. E in effetti fu così.
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