martedì 10 novembre 2020
C’è un nesso tra il calo demografico e quello delle manifestazioni pubbliche? La scarsa aspettativa di futuro così incisiva nel crollo delle nascite è causa anche della crisi dell’azione collettiva?
Piazza del Duomo a Milano

Piazza del Duomo a Milano - Fotogramma

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Come può manifestarsi la rabbia sociale in Italia se c’è un fortissimo calo demografico? Che nesso c’è tra manifestazioni di rabbia sociale, a prescindere dalla presenza o meno dei cosiddetti “professionisti della provocazione”, e la visibile e piccola quantità di manifestanti, specialmente di giovani?

Gli opinionisti hanno scarsamente focalizzato la loro attenzione su questa dinamica sociologica che si “autocorregge” solo con la presenza di quote di anziani quando si mobilitano i sindacati confederali. Allora le piazze si riempiono, ma sono i soliti sessantenni/ settantenni, che ancora si mobilitano per il soccorso “piazzaiolo”, altro da noi non c’è.

Niente di quella ripresa di folle presenti nei movimenti di protesta francesi (a prescindere da qualsiasi giudizio di valore) o delle. ancora più appariscenti, piazze degli Stati Uniti o della metropoli di Hong-Kong dove, con i movimenti antirazzisti o dei diritti umani le moltitudini giovanili, hanno riempito strade e piazze del grande continente nordamericano o della metropoli asiatica come raramente era accaduto nei decenni precedenti.

Da qui la mia ipotesi di discussione che sostiene come, specialmente nel nostro Paese, non ci possono più essere grandi manifestazioni di massa, perché non ci sono più le masse giovanili a causa del catastrofico calo demografico che ha colpito, da più di un ventennio, il nostro Paese. Altro che temere assembramenti! Non ci sono più coloro che si “assembrano” per poi fare un corteo. Al massimo si assembrano per prendersi melanconicamente aperitivi e “percorrere” alienanti movide.

Tra le tendenze di forte incidenza sul nostro tema dell’impossibilità di manifestare – ripeto per l’inesistenza dei manifestanti, non per grottesche “dittature sanitarie” che non esistono – emerge, io ritengo come radice del problema, una diffusa crisi demografica che, in verità, ha coinvolto tutta l’area occidentale europea con gradi differenziati: in Italia abbiamo, da quasi un ventennio, il triste primato mondiale della “crescita zero” di prolificità. Vale a dire abbiamo un saldo spesso negativo tra nati e morti annualmente.

In accordo con i dati Istat il nostro Paese è uno dei 23 stati che, dal 2020 al 2100, vedrà la propria popolazione tendere sempre più verso i 40 milioni di abitanti dai 61 attuali e altrettanto capiterà alla traiettoria spagnola, che passerà dai 46 milioni attuali verso i 28 e quella tedesca da 83 a 66 milioni. Tra il centro, o i “centri metropolitani” delle aree avanzate nei processi di globalizzazione e le “periferie” dei vasti spazi sottosviluppati e scartati, si ri- schia di “non fare più rete tra le generazioni”, come è ben detto in una recente survey pubblicata nella prestigiosa rivista scientifica “The Lancet”, in cui si fa anche notare l’intreccio con le recenti dinamiche pandemiche che spezzano le relazionalità socio-generazionali.

Inoltre questi processi di raffreddamento dei megatrend sociodemografici si accompagnano ad “accelerazionismi” nelle trasformazioni tecnologiche esponendoci all’epoca dell’intelligenza artificiale e robotizzazioni spinte. Innescando grandi mutamenti negli apparati della sanità, della scuola e delle imprese.

Il megatrend socio-demografico evidenzia così un’Europa sempre più anziana che rischia di essere travolta da un’enorme richiesta di servizi, di “cure” le più differenziate in epoca di apertura di fasi epidemiche inedite, dato che il carico fiscale futuro diverrebbe insostenibile per l’esigua parte di “resto sociale” minoritario, giovanile e di media età.

Di fronte a questi “futuri” demografici, su scala di tutto l’occidente, i colossali processi delle stesse innovazioni supertecnologiche, non sono in grado di comporre una “nuova” fase di civilizzazione. Sono, a mio parere, le risorse umane lo strumento decisivo e che potrebbero, sul medio periodo, risollevare le nostre società colpite oltre che da epidemie da inediti “inverni demografici”.

Quando una serie di cicli di crescita demografica “fanno pressione” verso tutte le istituzioni – con crescita di domande di consumi, di cultura, di fisiologiche critiche “di piazza” e sociali – le stesse istituzioni democratiche rielaborano in continuazione conflitti e provocazioni creative orientandosi verso mutamenti di status e ruoli, sia per la quantità dei nuovi nati, sia per il protrarre con le cure opportune la vita degli anziani che sono memoria per le nuove generazioni.

Tutto questo, inoltre, non potrà che necessariamente condurre a nuovi mix di etnie, a richieste di immigrazioni per nuove aree dei mercati dei lavori, componendo società rinvigorite da giovanissime generazioni multietniche. Si determineranno necessariamente circolazioni di élites sociali e popolari “dal basso” che nelle spinte tecnologiche, allora, troveranno feconde possibilità di innovazioni per la comune società. Se non ci sarà questa “freschezza” di molte nuove vite tutto resterà stagnazione socio–economica.

Questo concetto di “pressione sociale” per il mutamento nelle élites dal basso è uno dei portati della grande scuola sociologica italiana, da Pareto a Michels, che ha sempre sostenuto la decisività dei “nuovi” cicli demografici per i rinnovamenti societari.

A un’analisi attenta, il calo delle nascite è dipendente, se non addirittura prodotto, dallo scarso “protagonismo” che, l’attuale società italiana, dà al ruolo di diventare genitori.

Tutto ciò si accompagna alla carenza di speranza verso la crescita di offerta di lavoro. Un indebolimento che riguarda la propensione nel far coincidere il futuro lavoro con la crescita di prolificità. È tutta qui la questione: sarà riconoscibile la scarsa aspettativa di futuro come crisi dell’azione collettiva, dei cortei inesistenti, della diffusa irrazionalità nel senso comune presente nelle popolazioni occidentali?

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