domenica 2 agosto 2020
L'eroe omerico non regge l’impeto dei suoi stessi sentimenti, sempre fuor di misura
“La partenza di Achille” su un’anfora al British Museum

“La partenza di Achille” su un’anfora al British Museum - Fototeca

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Come tutti i grandi autori, Omero segue fedelmente i suoi personaggi ovunque lo portino. E i capi greci lo portano qua e là per l’accampamento a loro piacimento. Chi gli dà più da fare, naturalmente, è Achille con la sua ira e le sue lacrime. Achille l’Estremo e l’Eccessivo – l’Emotivo, il grande Impulsivo – e nessuno può opporglisi. Lo stesso Omero riesce a fronteggiarlo a fatica, e infatti, probabilmente stremato, non riesce a terminare la guerra. Ci lascia con Priamo che rende gli onori al corpo di Ettore, nella pausa dei combattimenti, forse l’ultima. L’ira e le lacrime sono due manifestazioni dell’animo solo all’apparenza opposte. L’irascibile di solito è incline al lamento. Il lamentoso è facile alla collera. Ma perché piange tanto Achille (anche se in realtà tutti piangono nell’Iliade)? «Scoppiando in pianto sedette lontano dai compagni, in disparte (…)/ e molto implorava la madre, stendendo le mani: 'Madre, poi che mi generasti a vivere breve vita...'». La madre Tetide sale dal profondo del mare, dove vive: «'Creatura mia, perché piangi? che pena ha colpito il tuo cuore?'». E la risposta comincia nel tono di figlio a madre, uno dei toni più possibili: «'Lo sai! perché devo dirlo a te, che sai già tutto quanto?'».

Achille piange per i tanti motivi per cui si piange, ma di rabbia soprattutto. Ogni emozione fortemente sentita, negativa o positiva, può generare le lacrime. E Achille fortemente sente ogni cosa, ma soprattutto piange di impotenza. Ha ricevuto due ingiustizie. Una grande e l’altra irreparabile. Costretto ad andare in guerra per riparare a un torto subito da altri, i due Atridi, uno di questi altri, Agamennone, gli toglie Briseide, la 'preda' di guerra che gli spettava. E il suo orgoglio non può tollerarlo. L’ingiustizia irreparabile invece è la certezza stabilita della morte vicina. La doppia ingiustizia genera la sua impotenza. E dell’impotenza che può provocare la rassegnazione o la collera, Achille deve scegliere la seconda, per indole forse non meno che per ingiunzione divina. Una collera irreparabile come l’ingiustizia che l’ha provoca. Achille odia la morte da quando sa che la troverà così presto. Odierà la morte di Patroclo, che scatenerà l’ultima ira e la più travolgente. Quando Ulisse lo incontra nell’Ade, nell’Odissea, si complimenta con lui per la sua sorte felice: «Nessuno/ di te più beato, o Achille (…)/ prima infatti, da vivo, ti rendevamo onori di dei/ noi Argivi, ed ora hai grande potere tra i morti/ qui dimorando: non t’angusti, Achille, la morte ». 'Non abbellirmi, illustre Odisseo, la morte!» gli ribatte.

Questo è l’Achille più noto, sul quale proviamo a intrattenerci ancora un po’, con un confronto suggerito proprio dall’incontro appena citato. Achille è l’anti-Ulisse. Accorto, ponderato, paziente è Ulisse. E Achille malaccorto, impulsivo e impaziente. Ulisse è forte, astuto, magnanimo. E Achille vulnerabile (travolto dalla sua stessa forza), ingenuo e permaloso. E ardito, avventato, insolente, al contrario di Ulisse che è ingegnoso, saggio e «blande parole»: abilissimo parlatore. L’Inflessibile Achille non può competere, nella scienza della vita, con il grande Flessibile, il Mutevole per non morire. Ma se c’è una cosa di cui non gli importa niente, ad Achille, è la saggezza. Di tutti gli eroi omerici, Achille è il più inumano, e non solo perché figlio di una divinità – altri lo erano – ma perché in lui la natura divina si unisce a un’altra più animale che umana: dalla prima prende la forza, scrive Rachel Bespaloff, dalla seconda la crudeltà. La natura stessa è inorridita da tanto accanimento. E quando infuria la battaglia lungo il fiume Scamandro, questi lo invoca: «...'e oppresso dai morti non riesco a versare le acque/ in mare, e tu continui a uccidere orrendamente./ Smetti dunque, mi ispiri sgomento...'». Le due nature opposte in qualche raro e ineffabile momento – tra i più sublimi dell’Iliade – riesce a conciliarle: gli incontri con la madre Teti, quello con Priamo per il riscatto del corpo di Ettore; e qua e là nei riconoscimenti della sua vulnerabilità, nelle più strazianti delle sue auto-commiserazioni.

Ma perché piange tanto? Perché soffre. Non regge l’impeto dei suoi stessi sentimenti, sempre fuor di misura. E per questo forse suona la cetra, nella tenda, quando si sottrae alla guerra per punire i suoi. «Pitagora – racconta Seneca – era solito rimediare ai disordini interiori con la lira». La lira e la vicinanza di Patroclo – e della madre che lo consola e gli provoca altre lacrime, di pena e compassione per sé – solo questo riesce a rasserenare un poco Achille. Scrive ancora Seneca – poiché la frase appena trascritta si legge giusto nel De ira–, che l’ira è una «complicata ma-lattia », e che «i più iracondi sono i bimbi, i vecchi, i malati, e ogni essere debole è per natura portato a lagnarsi». Figlio di un’amorevolissima madre – non c’è un incontro in cui lei non esordisca chiamandolo: «creatura» –, ha tutti i tratti del narcisismo e dell’immaturità. Ma non c’è spietatezza, nei poemi omerici, senza un bilanciamento di pietà. Perfino in Achille nelle occasioni citate, e si potrebbe dire che il poema che inizia con la sua ira, termina con la sua compassione – piena di lacrime, naturalmente: per il vecchio Priamo, che gli ricorda il padre che non rivedrà.

Per la relazione con la madre occorre lasciare la parola alla studiosa che l’ha compresa e descritta con maggiore finezza, la citata Rachel Bespaloff: «Quest’uomo iracondo, frenetico, sempre ebbro di azione o di noia, ha per madre (…) una Nereide dal piede leggero ammantata di placida grazia». Ancora: «Solo con lei Achille si lascia andare, ridiventa umano nel suo bisogno di essere protetto e consolato. E Teti non è mai la madre orgogliosa dell’eroe trionfante, ma sempre la madre straziata del figlio agonizzante». Più che la moglie di Peleo, dice ancora la studiosa, Teti è figlia del mare e madre di Achille. E così si ritorna al principio, al primo verso, a quel principio un po’ sfasato, fuori fuoco o dal fuoco che non ci aspettiamo: intanto perché 'rovinosa', 'funesta', per i greci, non è l’ira di Achille – lo sarà dopo per i troiani –; non è a causa sua che i greci patiscono tanto, ma di Agamennone che l’ha offeso fino a costringerlo a ritirarsi. Ma sia pure... C’è un’altra lieve sfasatura rileggendo a posteriori. Più che dello sbiadito Peleo, così simile ad altri padri, Achille è figlio dell’amorevole Nereide Teti. E nessuno si sconcerterà, nemmeno Omero, dello scambio di due sole lettere in quell’inizio: «Cantami, o dea, l’ira d’Achille Tetide/ rovinosa, che infiniti dolori inflisse...». Povero Achille.

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