giovedì 11 novembre 2010
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Mentre erano là sotto, a 700 metri di profondità, a respirare il cuore umido della terra, nessuno di loro sapeva di recitare una parte in quello che sarebbe diventato uno dei più seguiti reality della storia della televisione. Nessuno dei 33 minatori, inghiottiti nella cava di uno sperduto deserto del Cile, nelle viscere della miniera San Josè, vicino a Copiaco. Era il 5 agosto, il primo dei 69 giorni di una diretta in mondovisione palpitante e piena di colpi di scena. Le telecamere si accendono il 22 agosto, perché dopo 17 giorni di silenzio e angoscia, quel giorno arriva un messaggio, «stiamo bene tutti e 33 siamo nel rifugio». È il foglietto infilato in una sonda da Mario Gomez, il più anziano del gruppo, oggi conservato come una sorta di reliquia nel Palacio de la Moneda a Santiago. È il primo contatto, avvenuto con il mondo là sopra attraverso le macchine.È da qui che parte Cile: fine dell’inferno, il docufilm di Discovery Channel che in Italia andrà in onda sabato in anteprima alle 23 (replica domenica alle 17), dal braccio di acciaio che ha portato il primo segnale di vita. Da quel momento, attorno a questo che sarebbe potuto essere un cimitero ma è diventato un santuario di fede ribattezzato Campo Esperanza, si raccoglie una delle più appassionanti missioni di salvataggio della storia. «Discovery si era già occupata di altri incidenti in miniera nel Sud America – spiega ad Avvenire Michela Giorelli, produttore esecutivo della Discovery per l’America Latina – Ma questa del Cile è una vicenda che abbiamo voluto raccontare in maniera diversa».Una storia di uomini e macchine, che ha coinvolto il mondo intero, tra i maggiori esperti del pianeta come Michael Duncan, della Nasa, che dà consulenza allo staff medico e visiona la salute dei minatori. Cosa mangiano, come vengono nutriti, che vestiti che indossano. Per la prima volta scopriamo i dettagli di un dramma che all’inizio non si era sicuri di risolvere, seguiamo il percorso delle trivelle ricostruito in 3D e il progetto della capsula che avrebbe tirato fuori i sopravvissuti. «Operazioni meticolose che sarebbero dovute durare fino a Natale e che invece in metà del tempo hanno salvato la vita a tutti i 33 minatori». Il merito degli autori è di capovolgere l’interesse dello spettatore. «Volutamente non si concentra su immagini che sono state viste da miliardi di spettatori nel mondo. Piuttosto mostriamo tutto quello che c’è da sapere su una straordinaria operazione di salvataggio».Al centro non ci sono retroscena sulle vite dei minatori e l’attesa delle famiglie è mostrata senza morbosità: «All’inizio come tutti non sapevamo come sarebbe andata a finire, e neanche che tipo di documentario avremmo potuto fare. Poi abbiamo capito che la maggior parte dei media si sarebbero occupati per oltre due mesi dell’aspetto più intimo del dramma umano. Invece, per un canale come Discovery era interessante la prospettiva delle innovazioni tecnologiche: mostrare come la scienza e la tecnologia siano state in grado di superare le difficoltà implicate in un salvataggio senza precedenti».In due mesi abbiamo così conosciuto Luis, Dario, Osman, Florencio, e tutti gli altri. Li abbiamo visti ridere e piangere, incapsulati in quel confessionale che fa tanto reality perché ormai quelle stanze televisive di finta realtà sono il canone interpretativo di ogni immagine tv. Invece, Cile: fine dell’inferno «fa vedere qualcosa che le tv non hanno mai fatto vedere – aggiunge il regista Guillermo Galdos –. E grazie all’accesso esclusivo all’area di lavoro intorno alle tre enormi trivelle utilizzate nell’operazione e alla "sala di controllo" della missione, e con l’utilizzo di immagini 3D, fornisce uno sguardo in tempo reale sul lavoro frenetico di ingegneri, dottori e psicologi, attorno a un’incredibile parabola di sopravvivenza».
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