venerdì 22 maggio 2015
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«Dove sono Tommaso, Maurizio, Giorgio, il saggio, l’atletico, il campione? Tutti, tutti, dormono sulla collina...». Edgar Lee Masters ci perdonerà, se prendiamo a prestito i suoi versi e cambiamo i nomi di Elmer, Herman e Bert con quelli di Tommaso e Maurizio Maestrelli e di Giorgio Chinaglia per raccontare un’altra Spoon River: quella laziale. Nella settimana del derby Lazio-Roma (slittato a lunedì) e di un calcio sempre più ostaggio dalle mafie che tengono il banco delle scommesse, l’anima si consola con un viaggio alla ricerca delle emozioni perdute.A guidarci è Massimo Maestrelli, fratello di Maurizio. I “gemelli dell’aquila”, le mascotte e gli amuleti onnipresenti di quella Lazio del primo scudetto del 1974 allenata da “babbo” Tommaso e trascinata in campo dal “bomber”, Giorgio Chinaglia. Tommaso, Maurizio e Giorgio dal 2013 riposano assieme nella tomba della famiglia Maestrelli dove ci sono anche mamma Angelina e la sorella Patrizia. «Un giorno Giancarlo Oddi, difensore della Lazio del ’74, mi disse: “Perché non mettiamo una foto di Chinaglia (morto l’1 aprile 2012) nella cappella?” Allora gli risposi: “Ma perché non ci mettiamo proprio Giorgio?”. Così lo abbiamo riportato dagli Stati Uniti», racconta Massimo seduto sulla panchina davanti alla tomba. Qui al cimitero di Prima Porta ogni giorno arrivano tifosi («Molti di loro non erano neanche nati nel ’74») a portare fiori, a lasciare messaggi o poesie come quella in cui “Angelo er poeta” ringrazia: «L’allievo e er maestro per la gioia e l’amore che avete lasciato. Che Dio ve accolga a se». Se non poesia, è un romanzo d’amore, quello del “maestro” Maestrelli e del suo “allievo”, più difficile, ma prediletto, Chinaglia.Un amore paterno che seppe infondere a un’intera squadra. Tommaso il buono, antesignano di Zeman al Foggia e ora di Stefano Pioli («Stesso profilo basso ed eleganza nei modi di babbo; infatti due anni fa, in tempi non sospetti, gli abbiamo dato il Premio Maestrelli», sottolinea Massimo), aveva preso la Lazio nell’estate del 1971, in Serie B. Con quelle due simpatiche “canaglie inglesi” Wilson e Chinaglia, che capeggiavano uno dei due clan formatisi all’interno dello spogliatoio (l’altro era quello di Re Cecconi, Martini e Frustalupi), Maestrelli in appena due stagioni portò la Lazio ai vertici della Serie A, fino alla galoppata tricolore. Una stagione iniziata il 7 ottobre 1973, giorno del compleanno dell’allenatore, con la vittoria al Menti (Vicenza-Lazio 0-3) e terminata con l’apoteosi del 19 maggio 1974 («il giorno in cui io e Maurizio compivamo undici anni»), con la vittoria dello scudetto con il Foggia. «“Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia!” Era il coro assordante della Curva Nord. Giorgio a quel punto si “ingobbiva”, chiedeva palla al compagno e se non glie la davano urlava che lo sentivano per tutta Roma. “Tu passa a me che faccio gò’”, l’ordine tassativo».In quell’anno di grazia ne segnò 24, di gol, riportando – 31 anni dopo Piola – un bomber laziale sul trono dei marcatori. Ma di tutte le prodezze un’intera generazione non ha più dimenticato quel gol di “Long John” nel derby del 31 marzo 1974. A metà ripresa, sull’1-1, il baffuto Paolo Conti, portiere della Roma, perse il pallone e Chinaglia in mezza rovesciata realizzò la rete della vittoria.Una gioia incontenibile, al punto che andò ad esultare sotto la Sud: dito puntato in segno di sfida, stravinta. Un gesto che scatenò una guerra punica fuori dall’Olimpico e per il bomber la “condanna capitale” di tutto il popolo romanista. «Giorgio alla vigilia di ogni derby su ordine anche di babbo veniva a dormire a casa nostra. Perché? Per via delle minacce dei romanisti che aveva aizzato per tutta la settimana». Per salvarlo dal linciaggio giallorosso padre Antonio Lisandrini, amico e padre spirituale di Maestrelli, andò a difenderlo in tv alla Domenica sportiva. «I gesti di Chinaglia – disse padre Lisandrini – sono scaturiti dalla passione per la battaglia... da un cuore puro come quello di un bambino». Reazione? «Oggi si parla tanto di violenza degli ultrà, ma gli anni Settanta sono stati terribili. A Roma si sparava, c’era la banda della Magliana che dettava legge. Io e mio fratello Maurizio in quel periodo siamo stati pedinati e a casa arrivò una lettera in cui anonimi minacciavano che ci avrebbero “rapiti e uccisi come cani”». Massimo si fa serio al ricordo di quelle pagine da Romanzo criminale, mischiate a storie di pallone.Pistole e palloni, titolo del documentato saggio amarcord di Guy Chiappaventi, che ha detto tutto su quella polveriera umana della Lazio del ’74. Chinaglia circolava con una Magnum 44 e Martini aveva insegnato a tutti, gemelli compresi, a sparare al poligono.«Maestrelli come reagiva? Li lasciava fare, al di là di qualche paternale non andava. Così come tollerava le alzate di ingegno di Chinaglia che non voleva mai perdere neppure in allenamento. Per tenere calmo Giorgio, finché non segnava il “go’” della vittoria, o almeno del pareggio, babbo non fischiava mai la fine di quelle partitelle che erano battaglie». La pazienza del buon padre di famiglia che aveva insegnato a quell’irascibile figlioccio il valore della generosità. «Giorgio sapeva di essere un privilegiato (aveva un contratto da cento milioni di lire, una fortuna) e chiese ai compagni di squadra di dividere i premi partita con i massaggiatori e i magazzinieri, perché diceva: “Io non mi dimentico come ci si sente quando si è poveri e devi avere a che fare con i ricchi”». Chinaglia non avrebbe mai dimenticato quella squadra, anche quando nel ’76 volò via a New York per giocare nei Cosmos con Pelé, «perché – diceva – di Lazio ci si ammala inevitabilmente». Un’altra feroce malattia, il 2 dicembre di quell’anno, stroncò – a 54 anni – il suo amato Maestrelli.Con Massimo usciamo da Prima Porta e torniamo verso il centro. La gente lo riconosce e lo saluta, anche nel nome del padre. «Quelli sono romanisti e con noi hanno sempre avuto un atteggiamento di grande rispetto. Anzi, a volte mi stupisco ancora di tanto calore». Passiamo in via Nitti e per un istante invece scende il gelo: «Lì c’era la gioielleria dove Re Cecconi morì sparato...». Era il 18 gennaio 1977 e con l’assurda fine del “biondo” della Lazio la luce di quella mitica squadra del ’74 si spense per sempre. Prima di andarsene Maestrelli salutò Chinaglia e chiese ai suoi gemelli la promessa che si sarebbero laureati. «Il giorno della laurea, in Economia, io e Maurizio, come sempre dopo ogni esame, siamo saliti alla tomba di babbo di corsa. Era il nostro secondo scudetto: tesi discussa con il professor Troina, un romanista che ai laziali li bocciava tutti».
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