lunedì 6 agosto 2012
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​Il mondo su una linea. Viaggia rapido, in un senso e in quello opposto, innumerevoli volte al giorno. Avanti e indietro, invece che intorno a se stesso e al sole. Uno sguardo sulla «Grande Mela», una panoramica sul resto del pianeta. Il giro del mondo, in quaranta minuti. Da Times Square a Flushing-Main Street, un segmento chiamato linea 7. Manhattan e il Queens. Una piazza brulicante, nel cuore della metropoli. E una strada più o meno anonima, nel cuore di un quartiere popolare. Luci al neon e grigio smorto. Centro e periferia. La New York dei turisti e quella dei povericristi. In mezzo, tutto e il suo contrario. Luce naturale e luce artificiale. Più la prima che la seconda. Tratti in superficie, molti. Altri sotterranei, pochi. E una fauna umana senza confini: Paesi, continenti, razze. Tutti insieme, come in un cocktail multicolore dai mille ingredienti. Il treno che viaggia nel buio di un tunnel è un melting-pot di gente, il più variegato possibile. Il treno che torna a vedere la luce del sole calamita lo sguardo al di là dei finestrini, a scorgere angoli di metropoli e scene di vita quotidiana. Lo sguardo incrocia di tutto: viste che tagliano il fiato, altre che non smuovono emozioni. Nei pressi di Manhattan ne scorgi l’ineguagliabile skyline, dal lato opposto costeggi anonimi brandelli del quartiere più popoloso della città o ad alzare gli occhi al cielo segui il volo di aerei che decollano dall’aeroporto La Guardia per arrivare chissà dove. Uno spicchio di «Grande Mela», da mangiare con gli occhi. Uno spicchio, due sapori: il dolce del centro, l’amaro della periferia. La linea 7 è così, unisce due mondi. E ti spiega New York, meglio di una guida turistica. La metropoli dello sport, che si allontana dal centro per andare in cerca di spazi ampi. Ti fa scendere a un tiro di schioppo dallo Shea Stadium, la casa dei Mets, metà della «Grande Mela» che venera il baseball (l’altra metà è per gli Yankees). Ti butta fuori a pochi metri da Flushing Meadows, il tempio del tennis, infuocato e ruggente quando scocca l’ora degli Us Open. Ma ferma pure a Grand Central, per chi abbia un viaggio più lungo da intraprendere su rotaia. A guardar fuori, scopri gli involucri. A guardar dentro, ne osservi il contenuto. I treni della linea 7 ti scarrozzano da un posto all’altro e ti fanno da guida ai luoghi, la gente che ci viaggia te ne illustra l’umanità, composita come da nessun’altra parte. La chiamano International Express, mica per caso. Taglia New York, ma è come se attraversasse il mondo. La linea 7, quella degli stranieri che hanno scoperto l’America. Tutti mischiati, in un calderone che viaggia lungo i binari. Razze, etnìe, passaporti. Bianchi, neri, gialli, rossi. New York li accoglie, la linea 7 li distribuisce. Visi, lineamenti, acconciature tradiscono origini e provenienza. E il cibo ne svela le abitudini, eloquenti e indicative: dimmi cosa mangi e ti dirò da dove vieni. Cosmopolita e globalizzata, la linea 7 unisce, mescola, addiziona, scompone. Attraversa quartieri, uno diverso dall’altro. E ferma in luoghi che intrecciano radici, culture, usi, costumi. Latinos, italiani, irlandesi, cinesi, armeni, indiani, mediorientali, e chi più ne ha più ne metta. Le Nazioni unite, in metropolitana. Se è vero che il Queens dà dimora a circa 150 differenti etnie è altrettanto vero che viaggiano tutti qui, sui treni a 11 vagoni, naturalmente i più capienti della subway newyorchese. Chi è esperto li guarda in volto, ne scruta le origini e già sa a quale fermata scenderanno, almeno con buona approssimazione. Un cinese che sale a Main Street non scenderà che al capolinea opposto, Times Square: abita al Queens, lavora a Chinatown. Un messicano parte e si ritira a Jackson Heigths, un irlandese a Woodside. E un italiano a Corona, per scendere al William Moore Park, altrimenti conosciuto come «Spaghetti Park», un mediorientale a Bliss Street, un filippino sulla 69esima, un afghano a Flushing. E via così, un immigrato dopo l’altro. Del resto, la costruirono per questo, per distribuire su un territorio più vasto gli americani acquisiti che bazzicavano intorno a Manhattan. Costruita dagli immigrati per gli immigrati.Tragitto breve, su un treno della subway. Ma cambiando idiomi e culture. Mille posti, dai confini più o meno netti. E altri ancora, senza nemmeno un’immaginaria frontiera. Perché ci sono luoghi che mischiano genti e culture, usi e costumi. Confini sì, ma labili. I treni della linea 7 seguono la sagoma infinita di Roosevelt Avenue, anzi la guardano dall’alto dei binari su cui corrono. Una strada lunga, come una profonda ferita nel cuore del Queens. La costeggia e vi scarica gente, una fermata dietro l’altra, una decina tra un’estremità e l’altra di quel segmento intitolato a Theodore Roosevelt. Conta fermate, accoglie immigrati, attraversa quartieri: Woodside, Jackson Heights, Elmhurst, Corona, Flushing Meadows. Se la linea 7 è l’International Express, Roosevelt Avenue è il mondo intero in una sola interminabile arteria metropolitana. Odori e sapori, come una bussola per orientarsi. Roosevelt Avenue ne miscela tanti: cucine lontane eppure vicine, lontane per ingredienti, vicine location. Vanno a braccetto, lungo il percorso multietnico della linea 7, spargendo odori lungo la Roosevelt. Latinoamericana e asiatica, opposti che si toccano. Cina, Filippine, India, Thailandia. E Colombia, Messico, Cuba. Ristoranti, fast-food, negozi, supermercati, stand e quant’altro. Una strada, infinite esperienze culinarie. E l’ingresso di diritto nell’elenco delle America’s Tastiest Streets, quello della rivista specializzata Good Magazine. Il tutto, servito dalla linea 7, la cosiddetta International Express, la più cosmopolita del mondo. Oppure la linea del Millennio, titolo assegnato nel 1999 dal Queens Council of Arts. Perché anche questo è arte: unire, mischiare, collegare, far convivere. È qui il mondo, da incontrare su un treno, da girare in 40 minuti. A New York, naturalmente.
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