venerdì 23 febbraio 2024
Quando il pensiero ristagna non bisogna rassegnarsi alla mancanza di senso, al dominio della tecnica, alla decostruzione dell’umano, alle profezie sulla fine: occorre recuperare saperi profondi
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Anticipiamo uno stralcio dell’introduzione alla seconda edizione (rivista e ampliata) del libro di Vittorio Possenti Una nuova partenza. Teologia politica e filosofia della storia (Armando, pagine 306, euro 25,00).

Una filosofia personalista della storia è una merce molto rara, di cui purtroppo non disponiamo anche per il sonno in cui è entrata la filosofia della storia. Scienza storica e filosofia della storia hanno compiti diversi: la seconda può sollevare il tema tanto del fine (o significato) della storia, quanto quello della sua fine. Il fine e la fine della storia – questioni spesso emarginate nel pensiero europeo moderno, volto verso un progresso continuo e secolarizzato -, sono riemerse con le due grandi guerre del ‘900, la bomba atomica, il disastro ecologico. La possibilità di una fine catastrofica della storia umana è ricomparsa, senza che sia rinato un interesse per la filosofia della storia, soffocata dalla ristrettezza del pensiero contemporaneo e dalla perdurante ostilità dello storicismo che la riduce a sociologia delle civiltà. La filosofia della storia deve invece porre come suo oggetto non il significato e lo svolgersi di una certa civiltà, ma il significato della storia universale. La disciplina di cui trattiamo ha per oggetto la storia umana, non la vicenda naturale del mondo e dell’universo: l’eventuale collasso dell’universo è un evento fisico, la fine del tempo storico è un evento che riguarda l’uomo e il mondo umano.

Se sono gli esseri umani (o persone) a creare e a muovere la storia; incorrere in errore o riduzione su che cosa sia la persona umana compromette l’intero disegno della disciplina. Vale tuttora il giudizio di R. Guardini, un autore che raramente emette sentenze impietose come questa: «Nessun essere, cosciente della sua natura umana, dirà che egli si riconosce nell’immagine presentata dalla moderna antropologia, che essa sia biologica, o psicologica, o sociologica o di qualunque altro carattere […]. Si parla dell’uomo ma non si vede realmente l’uomo. L’uomo quale è concepito nei tempi moderni non esiste. I rinnovati tentativi di rinchiuderlo in categorie alle quali egli non appartiene: meccaniche, biologiche, psicologiche, sociologiche, sono tutte variazioni della volontà fondamentale di fare di lui un essere che sia “natura” e diciamo pure natura spirituale. E non si vede ciò che egli è anzitutto e in modo assoluto; persona finita, che come tale esiste, anche quando non lo voglia, anche quando rinneghi la propria natura. Chiamato da Dio, posto in relazione con le cose e con le altre persone».

Settanta anni sono trascorsi dalla diagnosi di Guardini con il suo chiaro richiamo alla Trascendenza, e confermata a contrario già un decennio dopo con l’avvio dell’avventura postmoderna di J. Derrida, M. Foucault, G. Deleuze e dei loro seguaci italiani. Con l’onda postmoderna iniziò l’epoca della decostruzione, di cui si diceva (e si dice) che metteva in movimento il pensiero contro l’esaltazione moderna del soggetto (occidentale) e contro il fallologocentrismo. Derrida proseguiva l’opera genealogica e decostruttiva iniziata da Nietzsche e Heidegger, che avevano demolito “i vecchi idoli”. Foucault ed altri infliggevano il colpo di grazia, smascherando ulteriormente quell’io moderno, che si pensava autonomo, consapevole di sé e libero di scegliere. Il fatto è che il soggetto moderno, figlio a seconda dei casi del razionalismo, del materialismo, del naturalismo, aveva ben poco in comune con la nozione di persona. Ciò conferma la valutazione di Guardini secondo cui i moderni non hanno conosciuto l’essere umano.

Per una persuasiva filosofia della storia occorre sorvolare sulle cogitazioni fantasiose e scarsamente attendibili sulla fine della storia, la posthistoire, l’ultimo uomo, di moda alcuni decenni fa. Forse l’unica asserzione da condividere in merito alla fine della storia è che «la fine della storia è finita». Si scivola in una notevole ingenuità ritenere possibile ricavare dalle speculazioni di A. Kojève sullo snobismo, sull’ultimo uomo, la vita animale e umana un significato durevole per la filosofia della storia.

Taluni ricorrono ad espressioni – tipico il termine “macchina antropologica” – che non agevolano la comprensione della persona e dell’umanesimo. Nell’essere umano non si tratta di cercare il luogo di articolazione tra l’umano e l’animale, quasi fosse una zona di indifferenza, o peggio un punto di contatto instabile tra l’umano e l’animale, Ciò significa che il corpo umano non è un corpo meramente animale cui si aggiunge alla meno peggio un’anima spirituale, ma è un corpo umano animato ed elevato da un suo proprio logos, immanente all’individuo sin dal primo momento. Pertanto l’appunto severo che Heidegger eleva alla metafisica, ossia di pensare l’uomo «a partire dalla sua animalitas e non in direzione della sua humanitas», non è valido per la filosofia della persona cui guardiamo, che rende giustizia all’animale senza abbassare l’uomo. Le considerazioni avanzate da mezzo secolo sulla “macchina antropologica” che sarebbe propria della filosofia occidentale nella sua totalità, trascurano che la persona non è in alcun modo una macchina in cui debbano articolarsi meccanicamente l’animalità e l’umanità. La persona non è solo Dasein e il Dasein non è la persona.

Noi manteniamo l’eccezione umana in quanto fondata sulla necessità ontologica che ogni individuo umano è persona, non riducibile alla sola natura fisica, alla sola physis come luogo della creazione e della distruzione, del generare e del morire. Solo in questo modo è possibile avanzare verso una concezione personalista della storia sinora mancante anche in occidente, che pur avrebbe qualche carta da giocare.

Il progetto di occidentalizzazione del mondo ha comportato l’universalizzazione dell’homo oeconomicus et technicus. Nell’era del Capitalocene e del Tecnocene predomina il “progetto maschile” di attacco alla natura e la cibernanthropia (mescolanza di uomo e macchina). Dinanzi a tale situazione, non è sufficiente un nuovo illuminismo che, al pari di quello passato, confidi nella ragione e nella sua capacità di vincere le false certezze e le superstizioni; neanche un “nuovo illuminismo autocritico”, come da taluni versanti si auspica, potrebbe essere all’altezza della sfida. Dove cercare le sorgenti per oltrepassare il dominio della ragione tecnica e strumentale che insidia più o meno fortemente lo schema illuministico? L’eventuale nuovo illuminismo avrebbe bisogno di un innalzamento di prim’ordine: aiutare l’essere umano a diffidare di sé stesso, delle proprie allucinazioni, dei desideri smodati, della volontà di potenza che abita in noi, e che si esprime nel senso di onnipotenza del complesso scienza-tecnica. Dobbiamo imparare ad autoregolarci per trattenere l’onda di piena che esso stesso genera.

Prometeo donò agli esseri umani la tecnica, ma da inventore sommo e insieme scaltro truffatore, lasciò in essa la sua impronta ambigua. Nella strutturale ambivalenza della tecnica insidono un ruolo costituente e uno destituente in rapporto all’uomo: costituente per farlo essere meglio persona e destituente nel senso di renderlo estraneo a sé stesso e agli altri, nell’epoca della digitalizzazione, della società automatica e dell’algoritmo.

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