sabato 9 novembre 2013
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​Luigi Zoja fa segno di accomodarsi sulla poltrona sulla quale siedono di solito i suoi pazienti. «Tolga i cuscini, se danno fastidio», dice. Non raccomanda di allacciare le cinture, di cui pure ogni tanto si sentirebbe il bisogno. Dialogare con lui sul pontificato di Francesco significa infatti disporsi a un confronto niente affatto scontato. Oltre a essere uno dei più autorevoli psicoanalisti italiani, Zoja è tra i massimi conoscitori dell’opera di Carl Gustav Jung in campo internazionale. I suoi libri, da Il gesto di Ettore (Bollati Boringhieri, 2000) e La morte del prossimo (Einaudi, 2009) fino al recentissimo Utopie minimaliste (Chiarelettere), esplorano il territorio di frontiera tra etica pubblica e interiorità, in una prospettiva sempre sorprendente. «Non so perché, ma piacciono molto ai cattolici», scherza.E lei ricambia la simpatia?«Mi sta chiedendo se sono interessato alla figura di Francesco? La risposta sì, senz’altro, e per motivi che vanno al di là della persona del Papa. Un cambiamento come quello che si sta verificando nella Chiesa, per me, è molto più importante di una crisi di governo nel nostro Paese. L’agilità dimostrata dall’istituzione ecclesiale non è neppure lontanamente paragonabile con quella delle istituzioni civili, e lo stesso vale per l’influenza a livello mondiale. È un’onda lunga che pure, dal mio punto di vista, è destinata a fare i conti con l’attenuarsi dell’importanza della religione nel mondo globalizzato».L’entusiasmo suscitato da Francesco non prova il contrario?«Sì, se devo dar retta al mio amico Leonardo Boff, che in questi ultimi mesi ha cercato di contagiarmi con il suo ottimismo. Un atteggiamento che comprendo, sia chiaro. Da un decennio, ormai, trascorro un mese all’anno in Argentina e già prima del 13 marzo scorso il nome di Jorge Mario Bergoglio non mi era affatto sconosciuto. Di lui ho sempre sentito parlare in termini più che positivi. La crociata contro il lusso, per esempio, caratterizza da tempo il suo stile pastorale. Proprio per questo, però, non posso fare finta che la sua missione sia priva di rischi».Si riferisce alla sfida del dialogo con tutti, credenti e non credenti?«Il dialogo è un bisogno umano primario, ci mancherebbe altro che la Chiesa non lo praticasse e incoraggiasse. È stata la modernità, semmai, a trascurare così tanto la necessità di dialogo da doversi inventare un sostituto terribilmente costoso, complicato e difficilmente accessibile come la psicoanalisi. Da solo, però, il dialogo non è sufficiente».Perché?«Perché il richiamo al dialogo può essere frainteso e appiattito al livello della comunicazione. Va benissimo che un Papa sia un grande comunicatore, come Francesco ha dimostrato di essere a più riprese. La Chiesa, però, è testimone di qualcosa che sta più in alto rispetto alla comunicazione. La Chiesa è testimone del simbolo, del mistero, del sacrificio inteso non come assenza di un determinato bene od oggetto, ma come scoperta di un livello superiore e altrimenti inattingibile».Ha nostalgia di un Papa più remoto e regale?«Al contrario, vorrei che Francesco percorresse fino in fondo la strada del dialogo, dimostrando così la continuità profonda tra il suo pontificato e quello del predecessore. La rinuncia di Benedetto XVI ha avuto e continua ad avere una portata enorme. È un gesto senza precedenti, che obbliga la Chiesa a confrontarsi con il nodo del potere. Che è potere economico, certo, e quindi ben venga la trasparenza degli enti finanziari legati alla Santa Sede. Allo stesso modo non può più essere rimandata la purificazione di quanto attiene alla sfera degli abusi sessuali. Un’iniziativa, anche questa, che risale a Benedetto XVI e che Francesco ha ora il compito di portare fino in fondo, con tutta la delicatezza che un’azione del genere comporta. Ma il punto cruciale non è neppure questo».Qual è, allora?«Posso permettermi una provocazione laica e niente affatto laicista? La questione da risolvere riguarda il dogma dell’infallibilità. So benissimo che questo riguarda solo i pronunciamenti ex cathedra, ma nondimeno è il Papa stesso, quando si chiede “chi sono io per giudicare?”, a introdurre un elemento di dubbio o, se si preferisce, di possibilità. Si potrebbe rispondergli che è per definizione l’infallibile, colui che “deve” giudicare per correggere l’uomo, il quale è invece fallibile; oppure fargli notare che si sta spogliando di una prerogativa “imperiale”. La rinuncia all’infallibilità sarebbe la dimostrazione che il Papa è infallibile, almeno in quel momento. Sarebbe una spoliazione dalla forma più insidiosa e rigida del potere, con un’iniziativa veramente degna di Francesco d’Assisi».Sì, ma un dogma non si può abrogare.«Se il Papa è infallibile in materia di dogmi, dovrebbe esserlo anche nel momento in cui proclama che l’infallibilità non è più necessaria. Ciò richiama un’altra delle categorie predilette da Francesco, quella che forse più di ogni altra fonda la legittimità del dialogo».Che cosa intende?«L’appello alla coscienza, che non a caso è un tema decisivo per la stessa psicoanalisi. Vede, in italiano traduciamo come “coscienza” due diversi termini analitici tedeschi. Il primo, Bewusstein, descrive la consapevolezza intellettuale, mentre il secondo, Gewissen, è la coscienza morale. Per tradizione la mentalità italiana è incline a questa seconda tipologia, spesso declinata come adesione a una norma. È, direi, la versione cattolica della coscienza. A dover essere rivalutato è l’altro elemento, più presente nelle culture di matrice protestante, ma non solo in esse. Una coscienza consapevole, e quindi concreta, è stata tipica dell’opera dei gesuiti in America Latina, tra l’altro. E Francesco è un gesuita latinoamericano, giusto?».​​​​
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