venerdì 19 gennaio 2024
Una mostra a Palazzo Ducale e un libro compiono l'ennesima discesa nella violenza subita dalla pittrice, che diventa emblema di rivincita contro il maschilismo di oggi
Artemisia Gentileschi, "Allegoria dell'Inclinazione"

Artemisia Gentileschi, "Allegoria dell'Inclinazione" - Firenze, Casa Buonarroti

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Si poteva pensare che la ben nota faccenda dello stupro di Artemisia Gentileschi da parte di Agostino Tassi, uno dei maggiori quadraturisti del suo tempo a Roma, ma uomo dai modi poco onorevoli, nonché amico e frequentatore dello studio di Orazio, il padre della pittrice, fosse ormai materia per ricostruzioni storiche (il fatto si consumò nel 1611, il 6 maggio, in casa Gentileschi quando la ragazza non aveva nemmeno diciott’anni, ma venne reso noto con la denuncia del padre vari mesi dopo). Viviamo però in un’epoca dove femminicidi e violenze sulle donne sono all’ordine del giorno e Artemisia diventa una volta di più l’emblema dell’eroismo femminile che combatte un maschilismo inteso, credo sbagliando, come una conseguenza dello ius patriarcale di antico stampo. Non è questa la sede per toccare un argomento così spinoso e forzato, se non per ricordare che il famoso libro di Anna Banti su Artemisia inseguiva, fin dalla invenzione retorica del “manoscritto perduto” sotto le macerie del 1944, il riscatto salvifico di questa eroina vista anche come vendicatrice del genere femminile. Il racconto, fra storia e invenzione, mi ha sempre fatto pensare che in Artemisia Lucia Lopresti, vero nome della Banti, abbia proiettato il suo amore e odio per l’ingombrante presenza del “suo” Roberto, il marito Roberto Longhi, come una sorta di competizione sacrificale.

Comunque sia, se si rilegge oggi la vicenda dello stupro e del processo che venne intentato al Tassi, se si considerano le fasi immediatamente successive alla condanna a cinque anni che il Tassi effettivamente non scontò mai davvero, alla fine si avrà l’impressione netta di una diffusa ambiguità difficile da sciogliere. Costantino D’Orazio, curatore della mostra di Artemisia in corso a Genova all’insegna di “coraggio e passione” (fino al 1° aprile), si chiede per esempio come sia possibile che dopo un fatto del genere il padre di Artemisia abbia potuto lavorare nei mesi successivi allo stupro spalla a spalla col Tassi per gli affreschi nella loggia del Casino delle Muse e si siano ritrovati ancora fino al 1612 sui ponteggi dove Tassi esegui le illusionistiche prospettive architettoniche e Orazio le figure che nel Concerto di Apollo e le Muse che pare mostri Artemisia in abiti di nobildonna?

Se si riflette sul fatto che la denuncia di Orazio contro Tassi è arrivata quasi un anno dopo i fatti, viene qualche dubbio quando si capisce dagli atti del processo che le accuse mosse al Tassi e al suo amico Cosimo Quorli, oltre allo stupro impugnavano anche la cessione di un quadro dello stesso Orazio, sottratto con l’inganno ad Artemisia. Tutto questo rappresenta soltanto un debole quadro delle porcherie commesse all’epoca nelle tante pieghe di questa storiaccia, che coinvolgono due pochi di buono come Tassi e Quorli, gettano ombre sulla inquilina dei Gentileschi, Tuzia, cui Orazio, vedovo da qualche anno, aveva chiesto di tener d’occhio la figlia troppo vivace; le dichiarazioni del processo sono piene di contraddizioni e non mancano di insinuare fra le righe questioni nascoste che riguardano padre e figlia: nessuno dei due, infatti, può essere preso per mammoletta, e per quanto possa sembrare un infierire sulla vittima, Artemisia aveva certamente qualche esperienza della Roma dove accadevano ogni giorno per strada e nelle case violenze di vario tipo e gravità: la mostra che qualche anno fa vedemmo a Villa Medici sui bassifondi di Roma Barocca mentre faceva capire che quel demi-monde era popolato da schiere di artisti dediti ad alcol e altri vizi tipici della deboscia, allo stesso tempo rischiava persino di edulcorare la realtà stemperandola nella narrazione pittorica.

Per questo le informazioni che abbiamo sul “caso Artemisia” andrebbero prese sempre con beneficio d’inventario, e messe in dubbio per principio, evitando insomma di farne un manifesto troppo favorevole al carnefice ma anche alla vittima. Se la denuncia fu una sorta di atto dovuto – come scrive D’Orazio nel catalogo Skira –, per tentare di salvare l’onore della ragazza, molto rimane da capire, a cominciare dalla lettera che Orazio scrisse il 3 luglio 1612, mentre il processo al Tassi era in pieno svolgimento, a Cristina di Lorena, granduchessa fiorentina, per perorare la causa della figlia una volta che, celebrato il matrimonio “riparatore” con Pierantonio Stiattesi , pittore fiorentino forse imparentato col notaio che aiutò Tassi nel processo, ella si trasferirà a Firenze per far dimenticare quella brutta storia.

La lettera figura integralmente nel volume fresco di stampa per Officina libraria, Artemisia Gentileschi. L’Inclinazione per Michelangelo Buonarroti il Giovane (pagine 294, euro 30, a cura di C. Acidini e A. Cecchi) ed è saggiamente inquadrata da Gianni Papi nel contesto segnato dalla violenza e dai cinque anni successivi al processo trascorsi da Artemisia maritata a Firenze dove si creerà la fama che il padre nella lettera prometteva definendola piena di talento e facendo notare alla granduchessa come lo stupro e il processo erano una sorta di “assassinamento” artistico. Come garanzia Orazio prometteva di inviare a Cristina di Lorenza alcune opere di grande qualità perché potesse rendersene conto. Papi ritiene che uno di questi assaggi, che risentono ancora del naturalismo caravaggesco tipico dei primi anni romani di Artemisia, possa essere Giuditta con la fantesca. La lettera di Orazio in realtà non dice solo lo stato d’animo di un padre preoccupato del futuro della figlia nella pittura – fra i due vi furono non poche conflittualità –, ma fa nascere dubbi sulla regia di tutta la storia: la violenza, il tempo trascorso (troppo) fino alla denuncia, il processo e il matrimonio con Stiattesi.

Un elemento ulteriore, sia pure contraddittorio nella cronologia, è il quadro Susanna e i vecchioni conservato a Pommersfelden, che apre la mostra di Genova. Già in precedenza mi capitò di esprimere qualche dubbio sull’autografia di quest’opera, ritenendola invece un possibile dipinto di Orazio, a mo’ di post-factum, per sostenere la purezza di Artemisia prima della violenza. In effetti, si è spesso pensato che lei lo avesse dipinto appunto per scagionarsi da ogni sospetto (Tassi sostenne al processo che la pittrice fosse una ragazza disinibita e dai costumi sessualmente promiscui, i giudici la fecero visitare da due levatrici che confermarono la perdita della verginità, ma parecchio tempo prima, referto che convinse i giudizi a torturarla perché non si fidavano delle sue dichiarazioni). In basso a sinistra, sullo zoccolo della balaustra, si intravede, oltre al nome di Artemisia, anche una data che precede però l’anno della violenza, perché sembra essere 1610.

Qui si innescano tutta una serie di congetture – la prima è che la data potrebbe anche essere posteriore –; e se invece l’autore fosse Orazio, allora potrebbe inquadrarsi come il tentativo di difendere l’onore della figlia. E così anche la denuncia del Tassi e la lettera a Cristina di Lorenza sembrerebbero un altro tentativo del padre di pulirsi la coscienza per aver favorito la violenza (lavorando assieme al Tassi sui ponteggi, è possibile che cameratescamente si scambiassero battute sul genere femminile, che lo stesso Tassi abbia interpretato come un viatico alla violenza. C’è da dire che, a dispetto della sua pittura, Orazio non doveva essere poi tanto “gentile” o, come scrisse Longhi, forse affascinato, «il più meraviglioso sarto e tessitore che mai abbia lavorato tra i pittori»).

Papi invece ritiene che Susanna e i vecchioni, per lo stile e i colori, si conciliano bene con l’Allegoria dell’Inclinazione voluto da Michelangelo Buonarroti il Giovane come uno dei dipinti che decorano il soffitto della galleria di Casa Buonarroti, appena uscito dal restauro e da qualche giorno visibile nella mostra di Genova (assieme all’altra new entry fiorentina, la Conversione della Maddalena di Palazzo Pitti). Artemisia ci lavorò tra il 1615 e il 1616, e il prezzo di 34 fiorini che il Buonarroti le pagò equivale a circa il triplo di quanto percepito dagli altri pittori all’epoca. Come mai, si chiede Papi nel saggio “Artemisia nuda”? «Forse Artemisia andava “di moda” e per questo costava di più»: una fama raggiunta velocissima, essendo a Firenze dal gennaio 1613, e fondata, fra gli altri, da quattro dipinti che Papi – avvalendosi da un libro dei conti ritrovato da Nadia Bastogi – considera di mano di Artemisia, tutti databili ai primi anni del soggiorno fiorentino.

La commissione dell’Inclinazione per Papi è, giustamente, fonte di dubbi e di domande, a cominciare da quel “compare” che il marito di Artemisia rivolge a Michelangelo: «Un termine che allude a una vicinanza e a una complicità che ci sfuggono». Intanto la richiesta esplicita di raffigurare l’Inclinazione come figura nuda (poi emendata dal Volterrano), lontana dall’Iconologia del Ripa; che «lascia sbalorditi» soprattutto perché il suo volto è quello di Artemisia: «La pittrice, nuda, faceva dunque mostra di sé nella Galleria, sopra gli occhi di Michelangelo il Giovane ogni volta che questi avesse deciso di passeggiare per la sala». Osservazione prosaica? O «motivo vero dello sproporzionato compenso che Artemisia ebbe»? Ovvero «conseguenza di una temporanea infatuazione, non solo artistica, di Michelangelo il Giovane per la pittrice». Ma potrebbe infine essere un modo per smentire le dicerie sul prozio, il grande Michelangelo. In realtà lo storico dell’arte giunge a un’altra conclusione, che ha qualcosa di analogo: nel dipinto murale di Caravaggio sul soffitto del Casinò Ludovisi, proprietà del Cardinal Del Monte, vediamo Giove, Plutone e Nettuno dipinti in “nudi audacissimi”.

Anche qui gioca l’autoritratto, quello di Caravaggio, che raffigura i tre da sotto in su: «Sembra evidente la complicità che una simile immagine doveva implicare fra il pittore e il suo committente». Tornando ad Artemisia, quasi lanciando un ponte pittorico fra il momento dello stupro e quello della riabilitazione, Papi conclude: «io non vedo una soluzione di continuità fra la Susanna del 1610 e l’Inclinazione o le due versioni della Santa Caterina… E vi colgo il progresso di una autonoma riflessione artistica di Artemisia, frutto anche delle sue evoluzioni esistenziali». La premiata ditta “Gentileschi padre e figlia” continua insomma a suscitare dubbi, ripensamenti, intrecci dove le loro mani si uniscono e si separano, in un gioco continuo di autografia.

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