venerdì 9 maggio 2025
Il primo (e per ora unico) illustratore giudiziario italiano: dal caso Lindbergh fino alla strage di Erba: così il genere ha dato dignità alla cronaca sottraendola al sensazionalismo
Un'illustrazione di Andrea Spinelli sul processo a Lucia Finetti

Un'illustrazione di Andrea Spinelli sul processo a Lucia Finetti - © 2022 Andrea Spinelli

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Non è una storia italiana, quella dell’illustrazione giudiziaria. E pare una beffa per il Belpaese, che ha cullato l’arte in ogni sua forma nel corso dei secoli, perché il tratto di carboncino o d’acquerello capace di immortalare in pochi istanti la galassia di espressioni e di emozioni che si intrecciano sul volto e nel cuore dell’essere umano davanti alla giustizia – e all’avvincente dipanarsi del bene e del male nelle testimonianze d’un processo, in un aula di tribunale – è invece arte per eccellenza, espressione estetica dell’interiorità, quintessenza dell’utile alla conoscenza del reale.

Andrea Spinelli lo ripete convintamente, dall’alto d’un titolo riconosciuto appena da qualche anno: quello d’essere il primo, e per ora unico, courtroom sketcher italiano. La parola non è un inglesismo forzato: la tradizione degli illustratori giudiziari affonda le sue radici nel mondo anglosassone, in particolare nella storia dei processi americani (seppure sia diffusa molto anche in Francia, in Australia, a Hong Kong, in Giappone). E dei primi courtroom sketchers – tra cui spiccano tra l’altro molte donne, da Marguerite Martyn a Elizabeth Williams fino a Jane Reosenberg – si ha notizia già nel diciannovesimo secolo, con le illustrazioni pubblicate sulle pagine del New York Times e oggi conservate tra i cimeli degli archivi della Libreria del Congresso o della Corte Suprema. Una storia poi cresciuta attraverso i più celebri processi a porte chiuse degli ultimi decenni, dal Watergate a Charles Manson e O.J. Simpson sempre negli Usa fino a quello recentissimo sul caso di Gisele Pelicot in Francia, e arrivata fino a noi attraverso alcuni tra i fatti di cronaca più sconvolgenti degli ultimi decenni.

Quanto ha pesato questa tradizione nel suo percorso artistico?
«Direi poco o nulla, all’inizio. Non sono nato illustratore giudiziario. Disegno da quando ho memoria, questo sì, e da quando ho memoria sono innamorato della musica. È stato a un concerto, anni fa, che ho sentito fisicamente l’esigenza di tirare fuori un taccuino che avevo in tasca e mettermi ad illustrare quello che stavo vedendo: mi colpivano le espressioni dei musicisti, i volti delle persone attorno a me, sentivo il bisogno di fissare quel momento molto concreto, molto vivo. L’amico che era con me ne rimase entusiasta, fece vedere il mio lavoro al gruppo che suonava e loro vollero l’illustrazione che avevo realizzato. Da lì è cominciato un percorso di disegno e animazione legato, appunto, al mondo della musica: mi chiamarono per le illustrazioni del Concertone del primo maggio nel 2017, poi a quello di Taranto, fui premiato dal Mei di Faenza sul palco del Lucca Comics, mi contattò Tosca per il video della cover di “Piazza Grande” che portò a Sanremo nel 2020».

E dai palchi ai tribunali come ci è finito?
«Una sera del 2022 stavo guardando in tv un documentario sulle Bestie di Satana. Mi ritrovai a fissare quasi incantato le riprese delle aule di giustizia, per la prima volta sentii la stessa esigenza che avevo avvertito a quel concerto: desideravo esserci, disegnare quello che vi accadeva e a cui nessuno aveva potuto assistere direttamente, visto che il processo era stato celebrato a porte chiuse. Mezz’ora dopo ero al telefono con un mio amico giornalista: “Come ci entro, io, in un’aula di tribunale?”. Lui mi disse che avrei dovuto chiedere il permesso ed eccomi a scrivere una email al presidente del Tribunale di Milano Fabio Roia, pensando che mai mi avrebbe risposto».

Invece…
«Invece lo fece immediatamente. Gli proposi un colloquio, era fine agosto del 2022. Ebbi le autorizzazione per assistere a un processo già il lunedì successivo in Corte d’Assise d’Appello. Sul banco degli imputati c’era Lucia Finetti, una donna che aveva ucciso il marito. Ricordo il suo volto, se lo teneva tra le mani. Fu lei il soggetto della mia prima illustrazione, seduta dietro le sbarre, tutt’attorno una colata di macchie azzurre come una pioggia densa di colpe a battere sulle sue spalle. Iniziai anche a cercare i lavori di altri illustratori giudiziari, a confrontarmi coi loro tratti e i loro stili».

A Palazzo di Giustizia di Milano lei è diventato poi di casa: ha seguito il processo di revisione della strage di Erba, poi quelli molto mediatici a carico di Alessandro Impagnatiello e Alessia Pifferi. Finché il Tribunale, d’accordo con l’Ordine degli Avvocati, ha siglato un protocollo che ufficializza la sua presenza in aula. Ma perché l’illustrazione giudiziaria non ha mai preso piede in Italia?

«Negli Stati Uniti questa pratica ha di fatto sostituito le telecamere, bandite dopo il “processo del secolo” per l’omicidio del figlio dell’aviatore Charles Lindbergh negli anni Trenta: questo ne spiega in modo peculiare il successo e la diffusione, rimasti intatti per altro anche quando poi le telecamere nelle aule sono via via ritornate. In Italia credo che la cosa dipenda dal rapporto che abbiamo avuto e abbiamo con la giustizia, su una concezione spesso omologata e viziata da pregiudizi di colpa, di giudizio e di castigo: essere a un processo, diventarne testimone, fare esperienza dell’intensità di ciò che avviene riporta invece tutto alla dimensione dell’umano, che è una dimensione orizzontale per così dire, in cui a vittime e colpevoli si guarda per quello che sono, persone con emozioni, vissuti, storie vive da raccontare. È solo davanti all’umano che possiamo tornare a interrogarci sul significato di giustizia».

Lei dipinge con gli acquerelli, colorando in presa diretta e completando le illustrazioni in aula. La cronaca può diventare arte? Può essere bella?

«Dipende da cosa si intende per “bello”. Per me è indagare la realtà, andare in profondità delle cose e illuminarne parti sconosciute così che gli altri le possano vedere. L’arte è lo strumento con cui riesco a farlo, e se ci riesco, se sono utile a creare uno sguardo diverso sui fatti di cronaca, allora è anche bella. Io inizio e finisco il mio lavoro nello spazio di un’udienza, con la mia tavolozza di colori appoggiata sulle gambe, sporcandomi mani e vestiti. Non è un lavoro di concetto, ma denso di materia, di cose viste con gli occhi e toccate con le mani. Nessuna tecnologia digitale o telecamera potrebbe renderlo possibile. Scelgo di volta in volta il punto di vista migliore sui protagonisti della scena e mi lascio guidare dai fatti, da ciò che avviene sotto i miei occhi: l’espressione di una giudice durante il processo ad Alessia Pifferi, lo sguardo impassibile ma il suo sconvolgimento tradito dal modo di tenere il braccio sotto il mento; la mamma di Giulia Tramontano, dritta in piedi con lo sguardo fiero e pieno di dignità rivolto al killer di sua figlia, quando Impagnatiello ha iniziato a raccontare del suo orribile femminicidio. L’Ordine degli Avvocati di Milano ha siglato una convenzione che ha reso l’illustrazione giudiziaria uno strumento ufficialmente riconosciuto e utilizzabile dalle parti processuali. La mia speranza è che possa diventarlo in tutti i tribunali d’Italia».

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