
Lo scrittore ucraino Andrij Kurkov - Ansa
In occasione dei funerali di Francesco, su “Avvenire” Alessandro Zaccuri ha scritto che «la Chiesa è viva anche quando il Papa muore». Mi ha ricordato che a marzo del 2022, nel corso di un’intervista, lo scrittore ucraino Andrei Kurkov – a proposito di una domanda sull’amore come possibile antidoto al conflitto – mi disse che «per amare bisogna prima di tutto essere vivi». Kurkov, pensatore acuto e voce tra le più autorevoli della letteratura ucraina contemporanea, ha raccontato per decenni storie di periferie, di fragilità umane, ha spesso parlato della fatica quotidiana di vivere in un Paese segnato da una guerra che ha stravolto ogni certezza, fino a descrivere la fragile speranza custodita nei volti di bambini e bambine cresciuti troppo in fretta. A distanza di poco più di tre anni da quell’intervista siamo tornati a interpellarlo, dialogando con lui del senso di responsabilità e di indifferenza, di periferie reali ed esistenziali, ma soprattutto di ciò che potrebbe restare della figura e dell’impegno del pontefice in luoghi – come l’Ucraina – profondamente segnati dalla guerra, dove il ruolo “vivo” della Chiesa come spazio di cura e vicinanza, può essere fondamentale.
Papa Francesco ha parlato spesso di andare verso le periferie, luoghi di sofferenza ma anche di autenticità. Lei ha raccontato la vita delle periferie ucraine ben prima della guerra. Pensa che oggi l’Ucraina sia diventata una periferia esistenziale nel senso inteso da Francesco? E cosa possiamo imparare da questa “periferia” del mondo?
«La periferia è qualcosa di lontano da un centro più grande o più piccolo, e quindi invisibile e sconosciuto. Per Kiev molte regioni ucraine remote erano periferie e la gente lì lo accettava e non chiedeva attenzione. Ricordo di aver portato alcuni giovani scrittori a Suvorov, nella regione di Odessa, e di aver avuto una discussione con la gente del posto durata ore. Alla fine, uno degli abitanti del luogo ha detto: “Siete le prime persone che sono venute da noi a parlare del Paese e del futuro, per la prima volta in 25 anni!”. Ora, a causa della guerra, l’Ucraina è diventata una periferia sanguinante, che molte persone nel mondo preferirebbero non vedere. Allo stesso tempo, la situazione in Ucraina restituisce l’empatia nella vita di tanti e ci insegna a essere attenti al dolore degli altri».
Quello tra Trump e Zelensky in Vaticano è stato un incontro storico, cosa ne pensa? C'è reale volontà di compromesso o cambiamento di strategia diplomatica?
«L’incontro tra Trump e Zelensky è stato molto importante e ha segnato un serio cambiamento nelle loro relazioni, Trump ha finalmente capito che Putin sta giocando con lui, trattandolo come il gatto con il topo. La dichiarazione odierna della Russia lo ha solo dimostrato. L’incontro è stato storico, ma probabilmente non porterà alla pace».
In che misura gli incontri con i cardinali Parolin e Zuppi potrebbero invece segnare un’evoluzione nella diplomazia umanitaria e nel coinvolgimento della Santa Sede nel processo di pace?
«A mio avvisto, non c’è ancora abbastanza impegno da parte della Santa Sede, ma quello che si sta facendo è certamente giusto e corretto».
Francesco ci ha invitato a guardare il mondo con occhi non indifferenti. In una nostra vecchia intervista lei mi disse che la guerra toglie l’infanzia ai bambini. Cosa ci dicono oggi i bambini ucraini? Come possiamo non lasciare che vengano loro rubati i sogni, insegnare loro a essere protagonisti di un reale cambiamento, della costruzione di un futuro diverso e migliore?
«I bambini sono molto adulti oggi, anche quando hanno solo cinque o sei anni. Non conoscono una vita diversa da quella vissuta durante la guerra. Sorridono meno, parlano della guerra e della morte. Sanno che molti dei loro amici sono diventati rifugiati all’estero insieme alle loro madri. Quindi pensano che l’unica scelta per vivere senza la guerra sia quella di scappare dall’Ucraina. Allo stesso tempo, coloro che restano imparano a essere più responsabili, più seri. Non giocano, osservano la vita in tempo di guerra e imparano a sopravvivere fisicamente e mentalmente. Non possiamo compensare l’infanzia perduta, ma possiamo accettarli come amici e adulti prima di quanto accadrebbe in tempo di pace».
Il Papa ha spesso descritto la Chiesa non come fortezza dottrinale, ma come «ospedale da campo», che si prende cura delle ferite del mondo. In un contesto come quello ucraino la Chiesa può essere intesa in questo stesso modo?
«Mio figlio maggiore è già da molti anni coinvolto nelle attività di Sant’Egidio in Ucraina. Ha iniziato a farne parte prima della guerra, ma ora il lavoro di Sant’Egidio e dei suoi volontari è diventato molto più importante. La Chiesa cura le ferite degli ucraini. E soprattutto è importante per gli ucraini sfollati e per i bambini che hanno perso i padri in guerra. Il sostegno spirituale è importante per tutti in Ucraina».
Il Papa ha detto anche che «l’opposto più quotidiano all’amore di Dio, alla compassione di Dio, è l’indifferenza». Lei ha raccontato più volte la solitudine dell’Ucraina nei primi mesi del conflitto. Ha percepito quella che papa Francesco chiama “globalizzazione dell’indifferenza”? Se sì, cosa potrebbe scuoterci?
«L’indifferenza è il non coinvolgimento consapevole nelle situazioni in cui il coinvolgimento può aiutare e sostenere. L’Ucraina, all’inizio della guerra totale, è stata molto aiutata da Paesi e persone che hanno capito subito cosa era successo e volevano vedere la giustizia ristabilita. Poi la guerra si è trascinata e sono sorti altri problemi nel mondo. L’attenzione per l’Ucraina si è affievolita. Non posso biasimare chi si è stancato di un problema senza fine. Ma coloro che sono rimasti indifferenti per tutto il tempo sono persone senza una vera vita, senza una vera fede, senza una vera gioia. Si possono svegliare solo quando il dolore entra nella loro vita personale».
La sinodalità, per Papa Francesco, è fare esperienza di comunità, camminare insieme, ascoltare le voci più silenziose. Quale voce dall’Ucraina – ignorata o silenziosa – andrebbe ascoltata oggi?
«Le voci dei tatari di Crimea (gruppo etnico turco originario della Crimea) e degli ucraini che vivono nei territori occupati e nella Crimea annessa, perché non sono ascoltate nel mondo. Sarebbe bello che capissero che invece sono ascoltati, che le loro voci contano e non sono ignorate o silenziose».
Come scrittore attento alle parole, ha trovato nelle parole di Francesco un linguaggio chiaro e vicino alla verità della sofferenza ucraina?
«Sì, il suo è stato il linguaggio della compassione, laconico, pieno del suo personale dolore per la sofferenza degli ucraini e per la sofferenza di tutti i popoli che hanno affrontato l’ingiustizia e l’aggressione. Il linguaggio del Papa era spesso privo di parole con una forte coloritura emotiva. Nelle sue dichiarazioni e nei suoi discorsi, ha scelto di solito parole “bianche”, che danno speranza piuttosto che dare una valutazione».