lunedì 1 aprile 2013
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Non pare un caso se l’ultima tappa del viaggio terreno di Enzo Jannacci sarà la Basilica di Sant’Ambrogio. Non è solo questione di milanesità, pur sfociata in capolavori in musica (da E l’era tardi sull’indifferenza a Sei minuti all’alba sulla Resistenza, sino agli eroi della dignità di Faceva il palo o Sfiorisci bel fiore). La Basilica c’entra perché la vita e l’opera di Enzo Jannacci sono state intrise di valori precisi, presi dall’esempio paterno e declinati fra medicina e musica, valori come altruismo e solidarietà (che spinse Jannacci ad apparire "schizo", dissero i primi critici, pur di denunciare l’emarginazione, da El portava i scarp del tennis in poi), valori infine per nulla estranei alla fede. Che Jannacci aveva, non ha certo riscoperto nella malattia. Semmai la sua fede non la cantava, per pudore: per quella timidezza secondo cui un giorno ci disse: «Io dico delle cose, ma non sta a me suggerire le scelte agli altri». Però nelle canzoni valori e pietas appaiono a piene mani, e la fede la esprimeva comunque da medico (chirurgia d’emergenza, cardiochirurgia infantile, volontariato, disponibilità assoluta per i malati, salvataggio di decine di ragazzi dalla droga). La dichiarò solo dopo il caso di Eluana, quando (da padre e medico) ci disse: «Ne ho visti morire troppi fra le mie braccia, per capire come si possa staccare una spina. Decide chi deve». E solo nell’ultimo album di inediti, L’uomo a metà del 2003, l’aveva cantata. Ne Il Sottotenente, all’apparenza ennesimo omaggio al padre, dove in realtà – ci disse – «Il protagonista è Gesù»: un altro suo antieroe, capace solo (si fa per dire) di offrire «alla povera gente» un «suono di pace». Enzo Jannacci, nato a Milano nel ’35, bocciato in Rai nel ’61, giunto all’hit parade nel ’68 con Vengo anch’io… (una denuncia non ideologica, anche se molti la presero per nonsense), vicino al jazz, al rock (con Gaber), al teatro (con Fo: ma quanto scriveva da solo è più umano), nel suo eclettismo rigoroso (sembrava improvvisasse, non lo faceva quasi mai…) non ha comunque mai derogato a quelli che definiva «pilastri». I valori. Quando si riusciva a vincerne la timidezza, ti inondava di confidenze e ricordi, si commuoveva e capivi perché le sue canzoni sono emozione. Sono vere. Cantava i poveri, le donne emblema di purezza, i tempi non ammorbati dalla solitudine o dal cinismo, perché partiva dal padre, dalle sue difficoltà di crescita, dai tanti rifiuti subiti, dall’ospedale, con un inesausto tentare di far coincidere vita e canzoni. A dispetto dei discografici «che sa, a loro non gliene frega niente, però andare a Sanremo a fare lo stupido o a cantare di mafia è diverso». I centri dell’opera di Jannacci dunque restano, e resteranno, laddove la sua vita è diventata musica, negli ultimi anni anche grazie alla bravura di un figlio, Paolo, degno suo erede per talento e pudore. Dunque Natalia, La fotografia, Come gli aeroplani, la Vincenzina con cui aveva svoltato: «Se sei timido non vai bene, se fai il matto ti etichettano, io con quel pezzo ho cantato me e la società e da lì ho avuto il coraggio di scrivere tutto». Un giorno Enzo ci disse: «A me piace dare». E questo ha fatto, nelle canzoni e oltre. Una volta ci capitò di rifargli la domanda di un personaggio di un suo brano, «Quanto vale una canzone, Enzo?». E lui, commosso, ci disse «Me lo spiegò un bimbo. Ero in hit parade con Vengo anch’io, mi riconobbe e mi disse che il pezzo bello era il lato B, perché lo faceva piangere. Aveva capito tutto». Il lato B era Giovanni telegrafista, storia di un uomo normale che, come Jannacci scrisse in Lettera da lontano, vive «con la sua dignità, la sua morte, le sue illusioni». Uno come tutti noi, insomma. Questo era Enzo Jannacci, «medico fantasista» (voleva fosse la sua epigrafe) che quando gli chiedemmo se valesse la pena anche oggi cercare il mare, un senso, ci regalò un sorriso e disse: «Sì, il Volatore di aquiloni non morirà mai. Ognuno ha diritto, nella vita, ad avere un’uscita poetica».

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