martedì 15 novembre 2022
Il 40enne Giovanni, l’ex bambino di “Avrai”, sta uscendo col nuovo disco da chitarrista solista “Vorrei bastasse”: «Non ho mai raccolto l’eredità paterna. Sono in ricerca. Dio? È misericordia»
Il 40enne chitarrista acustico Giovanni Baglioni

Il 40enne chitarrista acustico Giovanni Baglioni

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Chiamarsi Giovanni Baglioni e poter dire, nonostante quel cognome, di essersi fatto da solo in campo musicale. A quarant’anni compiuti l’ex bambino di Avrai, il brano di gran successo scritto per la sua nascita, non è più e non solo il figlio di Claudio, ma un musicista a tutto tondo che sta percorrendo le strade non usuali della chitarra acustica contemporanea suonata da solista (e non sono molti a poterlo fare), con il ricorso ad un approccio articolato e polifonico e a tecniche particolari, tra le quali le accordature alternative, gli armonici artificiali, il tapping e il laptapping - cioè lo strumento disteso sulle ginocchia, quasi fosse una tastiera. Lo incontriamo mentre sta dando gli ultimi ritocchi al suo nuovo album di brani originali, che – anticipa – si chiamerà Vorrei bastasse e uscirà a breve, a distanza di 13 anni dal primo, Anima meccanica, del 2009. Nel frattempo tanti concerti da solo e diversi con il padre. Ma soprattutto tanta determinazione nello scrollarsi di dosso un’etichetta.

Giovanni Baglioni, l’associazione è immediata. Di padre in figlio…
In realtà no. Non mi sono sentito in dovere di raccogliere l’eredità paterna. A casa non mi hanno mai fatto pressioni per diventare musicista. E se ho cominciato ad andare a lezione di chitarra classica all’età di 8 anni, era solo per fare un’attività extrascolastica, come succede a tanti bambini. In seguito ho anche smesso di studiare e di suonare, da adolescente ho ripreso con un gruppo rock di coetanei. Ma non pensavo alla professione. Neanche quando un amico di famiglia, Luigi Calabrò, chitarrista di mio padre nella sua tournée giovanile in Polonia, mi fece ascoltare un disco di Tommy Emmanuel, Only, e io me ne innamorai, gettandomi in uno studio “matto e disperatissimo”, fino a imparare quasi tutti i brani, e allargando poi nell’arco degli anni successivi lo sguardo su altri chitarristi della scuola americana come Micheal Hedges e Preston Reed.

Quando è divenuta una professione?
Durante una vacanza alle Maldive nel 2006. Finita la quale restai come tuttofare nel villaggio turistico. Di giorno davo le canoe agli ospiti e la sera partecipavo agli sketch dell’animazione. Ma il capo villaggio una sera mi propose di suonare, perché doveva coprire un buco nella programmazione. Senza pensarci troppo accettai. Un concerto di chitarra acustica solista di fronte a persone che fino a poco tempo prima avevano ballato la Macarena o cose del genere. Fu un successo e divenne un appuntamento fisso fra le attività del villaggio. Alla fine della vacanza molti degli ospiti mi dicevano: “Ma perché stai lì a dare le canoe? Tu devi fare il musicista”.

Sapevano anche il suo cognome?
No. Perché in effetti questa cosa del cognome io l’ho spesso subita. Fin da piccolo mi dava fastidio che precedesse qualunque altro interesse nei miei confronti. Io non potevo mai essere un foglio bianco per gli altri. Il cognome occupava già tutto lo spazio. Quando avevo 14 anni quasi nascondevo la carta di identità. Insomma mi sono esibito là per tre mesi con il nome di Giovanni Marini, soprannome datomi dai colleghi per scherzo. E al ritorno ho cominciato a suonare nei locali.

E suo padre?
Si è mostrato come sempre non disinteressato, ma posato, quasi distaccato. Mi è venuto a vedere qualche volta, ha espresso pareri molto positivi, pur essendo di suo abbastanza riservato, ma non mi ha mai spinto. Anche in seguito ha osservato, credo con orgoglio paterno, il mio percorso.

E adesso com’è il rapporto? Non è raro ascoltarla nei suoi concerti.
In realtà anche prima di quella svolta avevo già fatto delle apparizioni, ma avevano più che altro un valore emotivo. Oltretutto suonavo la chitarra in maniera tradizionale. Oggi invece ho un altro ruolo e mi sento di offrire un apporto più specifico e particolare, frutto del percorso originale che ho intrapreso da musicista.

Non più semplicemente “il figlio di”?
Nell’immaginario di molti lo sarò sempre. Ma penso di poter dire che anche il pubblico di mio padre ha cominciato ad apprezzarmi come musicista. Io suono con mio padre perché oltre ad avere un legame forte, anche perché lo reputo un artista straordinario, un compositore raffinato e prezioso e un interprete eccellente. Le sue canzoni mi commuovono. Qualcuno non ci crederà, ma non lo dico perché è mio padre.

Ma è difficile crescere con addosso un brano come Avrai?
Naturalmente la gente mi identifica con quella canzone. Ma io non la sento troppo mia, perché è la canzone scritta da un padre per un figlio. Cioè ha le caratteristiche dell’universalità. Certo, Avrai è bellissima, piena di amore e poesia. Ma ormai è patrimonio comune, è di tutti. Ci sono altre canzoni - Grand’uomo, Dieci dita e anche L’ultimo omino che si riferisce a quando giocavamo insieme ai videogiochi – che parlano di qualcosa di più “nostro” o si ispirano a un’esperienza comune. Sembrerà strano, ma le sento più mie di Avrai.

E il prossimo disco?
È quasi pronto e si chiamerà Vorrei bastasse. L’ho composto, suonato, lasciato da parte e poi ripreso, perché ho sentito durante la lavorazione che ciò che facevo era insufficiente. E non so se lo fosse per me o per le aspettative degli altri, reali o presunte. Da qui l’idea del titolo, che non è quello di un brano, come a volte si fa. È un titolo che rimanda ad un rapporto non sempre spensierato con la musica, e forse anche con la vita, un richiamo all’essenziale piuttosto che alla superficie.

Della musica italiana che cosa le piace?
Quando ero bambino ascoltavo Lucio Battisti, poi da ragazzo i Litfiba e suonavo El diablo, facendo sobbalzare la mia nonna materna. Bersani con la sua ricerca sempre coraggiosa mi piace tantissimo. Così come la delicatezza di Concato. Anche Niccolò Fabi e Cesare Cremonini mi incuriosiscono. Per me sono artisti genuini. Quando mio padre ha fatto i due Sanremo, sono arrivate 700 proposte un anno e 850 l’anno dopo. Le ho ascoltate tutte con estrema attenzione e rispetto e ho cercato di promuovere quelle che ritenevo oneste, coraggiose, genuine e non costruite a tavolino. Questo è il vero discrimine oggi. Dovremmo premiare un po’ di più tali caratteristiche. E anche dal lato degli ascoltatori auspico più coraggio per andare a scovare oltre quello che propone ossessivamente il mainstream.

E tra i brani di suo padre qual è il suo preferito?
Sarebbe facile dire tutti (ride). Cito semplicemente la prima, tra le tante straordinarie, che mi viene in mente: Fotografie che considero un capolavoro sia per il testo che per la musica e per l’arrangiamento, e con quella indimenticabile coda strumentale .

Recentemente lei ha suonato a Matera nell’ambito della serata culturale del Congresso Eucaristico nazionale. Se è lecito chiederglielo, qual è il suo rapporto con la fede?
Alti e bassi. Ho ricevuto un’educazione cattolica e da ragazzo ho anche fatto l’aiuto catechista in parrocchia. Poi mi sono allontanato e riavvicinato più volte, ma il legame non si è mai spezzato. Talvolta, anche se può non esser giusto, sono stato condizionato negativamente dai comportamenti censurabili di alcuni uomini di Chiesa. Oggi sono in una posizione di ricerca, ma mi affascina la misericordia di Dio che è così straripante da andare anche oltre la nostra stessa richiesta di perdono. E comunque penso che l’invito di Gesù ad amare e perdonare anche i nemici è talmente rivoluzionario e sovrumano che non può venire se non da Dio.

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