domenica 9 maggio 2010
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Sudhir Kakar, scrittore, docente e psicoanalista, introdurrà il Paese ospite, l’India, al prossimo Salone internazionale del libro di Torino, giovedì 13 maggio alle 12 nella Sala Azzurra del Lingotto. Lo abbiamo intervistato sugli elementi essenziali che stanno alla base della sua opera vasta e multiforme in bilico tra India e Occidente, in parte tradotta e proposta in Italia da Neri Pozza.Quali sono le ragioni dietro la sua attività di scrittore, in particolare per quanto riguarda la narrativa?«Sono sempre complesse e alcune sono destinate a restare oscure, ma quello che so è che scrivere, quando viene più facile, mi dà quella particolare soddisfazione che deriva dall’impegnarsi con tutta la propria mente, cuore e spirito. Lo scrivere può essere generoso nel fornire esperienze "fluide", in divenire; momenti in cui l’assorbimento è così totale che il tempo sembra fermarsi. Scrivere è la mia forma di meditazione. La mia prima esperienza letteraria è stata una sceneggiatura scritta in lingua urdu per la All India Radio a Delhi quando avevo nove anni. Il lavoro venne rifiutato con gli auguri per il mio futuro di scrittore e quel primo riconoscimento, seppure negativo, è stato per me più esaltante di ogni successiva accettazione di un mio manoscritto da parte delle case editrici. Da studente ventenne in Germania ho anche scritto racconti in tedesco (non molto buoni, devo ammettere!), perciò quando da ormai maturo sessantenne ho ricominciato a scrivere narrativa è stato come recuperare una parte per lungo tempo tralasciata della mia attività di scrittore. Ho vissuto con parecchia apprensione il passaggio tra la scrittura accademica, di saggistica a quella narrativa. Prima, conoscevo il limiti dei libri ancora prima di scriverli; sapevo qual era il livello sotto cui non sarei mai sceso e quello oltre il quale non sarei mai salito. Sono giunto alla terra della narrativa come un migrante animato dalla sfida di conoscere lingua e costumi di un nuovo Paese e eccitato dalla promessa di libertà che l’emigrazione dell’immaginazione dona ai nuovi arrivati». Fiction e non-fiction, un rapporto difficile o interdipendente?«C’è una distinzione tra i due tipi di scrittura. Uno è più immaginario e connotativo mentre l’altro è discorsivo. Il piacere della fiction sta nel lasciare maggiore libertà all’immaginazione, andando oltre la ragionevolezza concreta verso un mondo meno tangibile di emozioni, suggestioni e impressioni, sfuggendo alla tirannia della nota a pie’ di pagina. Il piacere di un’opera non narrativa è nel maggiore esercizio del pensiero razionale, la gioia di un pensiero più definito. Ci sono necessariamente alcuni temi comuni nella mia narrativa e nella mia saggistica. I due principali sono l’amore appassionato e il misticismo, desiderio e spirito. I due potrebbero anche non incontrarsi mai, ma nei nostri momenti più creativi si sfiorano nello spazio vuoto che abitualmente li separa. Nella mia narrativa, ad esempio, ho esplorato la loro correlazione in Ascesi del desiderio, che presenta la figura di Vatsyayana, autore del Kamasutra; in Estasi, romanzo sulla figura del santo dell’estasi Ramakrishna; e nella vita di Gandhi che ha ispirato Mira e il Mahatma. Per quanto riguarda i testi non-fiction, in La folle e il santo e nel mio nuovo e ancora inedito in Italia Mad and Divine: Spirit and Psyche in the Modern World». Quale ruolo gioca la lunga esperienza all’estero, come pure il suo cosmopolitismo? Come si concilia questo con il suo essere indiano, figlio di una cultura antica e radicata?«La lunga esperienza di studio e di lavoro all’estero mi ha reso più cosmopolita ma paradossalmente anche più indiano. Mi ha fatto percepire la mia cultura in maniera più intensa e con assai maggiore conoscenza che se non fossi vissuto all’estero. Osservazioni come "pensano così", "credono questo", "i loro costumi sono questi" inevitabilmente portano a farsi domande abitualmente inespresse come: "Che cosa pensiamo noi indiani?", "In che cosa crediamo?", "Quali sono i nostri costumi?". Nel mio lavoro di saggista questa ricerca si riflette nella ricerca dei fondamenti dell’identità indiana e degli effetti della modernizzazione su di essa. Nella narrativa, ha evidenziato il mio sentire comune per personaggi come Gandhi, che attraversò esperienze simili oltre un secolo fa». Nelle sue narrazioni i personaggi sono al centro della storia, parte di essa in divenire. Lo scrittore oggi è soprattutto un testimone oppure anche architetto della storia? «Ritengo che gli eroi siano necessari in tempi difficili della storia di una nazione. In tempi normali siamo giustamente sospettosi dei "grandi uomini". Credo che gli scrittori, in maggioranza, preferirebbero essere testimoni a meno che le circostanze non li spingano ad acquisire ruoli eroici. Penso a Aleksandr Solzenicyn nell’Unione Sovietica, a un paio di scrittori contemporanei iraniani i cui nomi non voglio menzionare: avrebbero preferito essere ricordati come testimoni del loro tempo, ma gli eventi li hanno portati ad essere anche muratori della storia, se non architetti».
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