giovedì 16 aprile 2009
Il dibattito recente confonde i diritti dell’individuo e snatura il concetto di persona. Ma così si stravolge la lezione di Mounier. L’individuo è sempre radicato in una rete di relazioni all’interno della comunità, non è un essere solitario: distinzione fondamentale.
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Da qualche tempo a questa parte è in atto un inquie­tante processo di trasfor­mazione (o, piuttosto, di deforma­zione) del concetto di persona. Nato nei primi decenni del Nove­cento per reagire all’individuali­smo borghese (e a un’etica, quella kantiana, incentrata esclusiva­mente sul soggetto) il personali­smo si è sempre connotato, al di là dell’estrema varietà dei suoi per­corsi interni, per l’accentuazione della dimensione relazionale del­l’io: non a caso, del resto, una del­le sue più importanti ed incisive espressioni storiche è stata quella del personalismo comunitario (di Emmanuel Mounier, e non solo). Ciò che ha sempre distinto il per­sonalismo dall’individualismo (al di là delle formule e talora dalla terminologia usata) è stato il rap­porto con l’altro: occasionale e puramente esteriore per l’indivi­dualismo, strutturale e determi­nante per il personalismo. L’indi­viduo è un essere solitario e auto­referenziale, la persona un essere sociale e radicato nella rete di re­lazioni. Questa distinzione può apparire astratta e un poco scolastica, ma è ricca di conseguenze. Per l’indivi­dualismo ciascuno è libero di di­sporre liberamente di se stesso e del proprio corpo, in nome del principio di un’assoluta e insinda- cabile «autodeterminazione»; per il personalismo l’uomo è un esse­re sociale inserito in una serie di relazioni e di correlativi obblighi. Per l’individualismo l’uomo non deve «rispondere» di alcunché a chicchessia; per il personalismo l’uomo è al centro di una rete di responsabilità. E così via. Sono evidenti le implicazioni pra­tiche di questa distinzione. Abor­tire o non abortire è scelta «indivi­duale » della sola donna, e non un confronto con l’altro (il nascituro) e gli altri (il padre, la società, la co­munità che attende di essere ar­ricchita da un figlio). Continuare a vivere o decidere di morire, ricor­rendo al suicidio, è una scelta sulla quale nessuno può interferire e che anzi, a giudi­zio di taluni, la so­cietà dovrebbe non solo non im­pedire ma favorire attraverso il «sui­cidio assistito» e così via. È su questo sfondo che suscita non poche perplessità – almeno in chi si sente erede ed in qualche modo interprete della tradizione personalista – sentire parlare di «riscoperta del personalismo» (se­condo quanto recentemente af­fermato da Vannino Chiti su Euro­pa) a proposito di posizioni che appaiono di chiara marca indivi­dualistica, come individualistico è il «principio di autodeterminazio­ne » quando sia fondato sulla tesi secondo cui ciascuno è responsa­bile soltanto di fronte a se stesso, e non anche di fronte agli altri ed al­la società (e, per il credente, anche a Dio). La questione merita di essere svi­luppata ed approfondita in sedi ben più qualificate di quanto non siano le colonne di un giornale. Ma chi si ispira al personalismo comunitario non può non provare un segreto brivido nel constatare quanta parte della cultura «di sini­stra Emmanuel Mounier » – un tempo fortemente lega­ta ad una visione solidaristica del­la vita e per questa ragione ogget­to di penetrante attenzione da parte del personalismo comunita­rio – si sia fatta invischiare nelle secche di quello che Mounier chiamava lo «spirito borghese» (come borghese, appunto, è il principio dell’assoluta e indiscri­minata autoreferenzialità, sul pia­no degli affari come su quello del­la vita). Non è questo lo spirito della Co­stituzione, fortemente impregnata della cultura del personalismo comunitario, quando tesse attorno alla persona umana (pur se essa è espressamente invocata con so­brietà) una fitta rete di relazioni che vanno dalle «formazioni so­ciali » (art. 3), alle autonomie locali (art. 5) alla famiglia (art. 29). «Ri­scoprire il personalismo» non può significare accettare l’esclusiva autoreferenzialità del singolo ma recuperare la relazionalità struttu­rale della perso­na, come un «io» che si rapporta sempre, anche nelle situazioni più drammati­che della vita, a un «tu» che lo fronteggia e in­sieme lo trascen­de. Rompere l’estre­ma solitudine dell’io, anche alle frontiere della vita, non è un’invasione di campo di un presunto «Stato etico» (im­propriamente evocato da uno de­gli eredi di questa metafisica scuola di pensiero) ma un riaffer­mare la dimensione comunitaria dell’esistenza. L’uomo non è mai solo, anche nell’apparentemente solitudine della morte.
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