Il “Grande Fratello” in tv compie 25 anni. Ne valeva davvero la pena?
Da Daria Bignardi a Simona Ventura, il format ha sempre fatto discutere e si è trasformato da esperimento sociale a occasione di voyeurismo. Con partecipanti che spesso danno il peggio di sè

Ventuno dicembre 2000: una data storica per la televisione italiana, nel bene e nel male. Quella sera di 25 anni fa gran parte dell’Italia si fermò per vedere l’ultima puntata di quella che con una certa enfasi venne definita la trasmissione del secolo, ovvero la prima edizione del "Grande Fratello" condotta da Daria Bignardi e Marco Liorni. Certo è che i 16 milioni di telespettatori (con il 60 per cento di share) raggiunti nell’occasione da Canale 5 li superava all’epoca solo il Festival di Sanremo su Rai 1.
Quella data a tutto schermo compare anche in apertura del documentario Grande fratello – L’inizio, prodotto da Endemol Shine Italy, che Mediaset Infinity ha messo in rete per ricordare i cinque lustri del programma e per lanciare la nuova edizione in onda da ieri sera, sempre su Canale 5, con la conduzione di Simona Ventura, che in qualche modo torna al passato con concorrenti almeno in parte sconosciuti com’erano quelli di 25 anni fa (tre dei quali sono presenti in quest’ultima edizione come «opinionisti»: la vincitrice Cristina Plevani, Ascanio Pacelli e Floriana Secondi).
Ma a parte il malcelato intento celebrativo e promozionale, il documentario (scritto da Carmen Vogani e Lorenzo Avola con la regia di Francesco Imperato, il montaggio di Emanuele Svezia e Andrea Montesano, a cura di Alessia Ciolfi) offre l’opportunità non solo per rinfrescarsi la memoria su quanto accaduto da un punto di vista televisivo in quei cento giorni dal 14 settembre al 21 dicembre 2000, ma anche per riflettere una volta di più su un format che ha fatto e fa ancora discutere. Il Grande fratello è il capostipite di tutti i reality, il programma che ha definito un genere, a cui va riconosciuto di avere inaugurato un nuovo linguaggio, un nuovo modo di fare televisione e di essere diventato un fenomeno di costume.
C’è semmai da chiederci se ne valeva la pena e quale vantaggio possiamo averne tratto. Fatto sta che per la prima volta una regia televisiva registrava e mixava ciò che accadeva 24 ore su 24, sette giorni su sette, in una falsa casa con rinchiusi dentro, isolati dal mondo, una decina di giovani. Poi i concorrenti sarebbero diventati anche di più e di tutte le età, coinvolgendo personaggi conosciuti, i cosiddetti vip, abbandonando del tutto l’idea sia pure discutibile dell’esperimento sociale e allungando a dismisura i giorni della vita in cattività in quella che è stata definita «la casa più spiata d’Italia», sottolineando l’elemento voyeuristico insito nel programma. Per di più, sotto l’occhio indiscreto di decine di telecamere, i partecipanti, seguiti soprattutto nello svolgersi delle relazioni al loro interno (amicizie, presunti amori, alleanze, vendette…) finiscono spesso per dare il peggio di sé, illudendosi del contrario, tra squallidi battibecchi, bizze, lacrime facili ed effusioni. Il tutto pur di apparire per illudersi di essere.
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