giovedì 1 ottobre 2020
Il nigeriano, Nobel per la letteratura, racconta la grande esperienza impressa dall’incontro con l’arcivescovo anglicano di Città del Capo
Lo scrittore nigeriano Wole Soyinka, Nobel nel 1986

Lo scrittore nigeriano Wole Soyinka, Nobel nel 1986 - Giorgio Boato

COMMENTA E CONDIVIDI

Pubblichiamo una parte dell’intervento che il premio Nobel per la letteratura Wole Soyinka pronuncerà questa sera nell’ambito di “Insieme”, la manifestazione che da oggi a domenica si propone di riunire a Roma «lettori, autori, editori». Il progetto nasce dalla collaborazione fra tre consolidate iniziative culturali della Capitale: la rassegna “Libri Come”, che si svolge in marzo presso l’Auditorium Parco della Musica; “Letterature”, che ogni estate anima la Basilica di Massenzio; “Più Libri Più Liberi”, la fiera della piccola e media editoria ospitata in dicembre dalla Nuvola di Fuksas. Cancellate o rinviate a causa dell’emergenza Covid-19, le tre realtà hanno deciso di allearsi per un’irripetibile festa della lettura. Nel programma di “Insieme” (consultabile all’indirizzo www.insiemefestival.it: per tutti gli incontri è necessaria la prenotazione) confluiscono dibatti con ospiti italiani e stranieri, reading, presentazioni e una vasta area di stand editoriali allestita nella struttura dell’Auditorium, che dell’iniziativa rappresenta una delle sedi. L’appuntamento di cui è protagonista Soyinka (Jaca Book ha appena portato in libreria il suo saggio Al di là dell’estetica, Uso, abuso e dissonanze nelle tradizioni artistiche africane, traduzione di Cristiano Screm, pagine 204, euro 50,00) si tiene oggi al Teatro Palatino alle ore 18,30, ha come tema "Fede laica e laicità nella fede" e accompagna la messa in scena di uno dei testi più recenti del drammaturgo nigeriano, Ode laica per Chibok e Leah (Jaca Book), nell’interpretazione di Moni Ovadia. Lo spettacolo sarà replicato anche nelle sere successive, ma senza la presenza dell’autore.

Siamo sempre in viaggio nel nostro paesaggio morale interiore, lungo un percorso segnato dagli eventi e dagli incontri che via via si susseguono. Possiamo prenderne uno per orientarci. Ce ne sarebbero altri, anche più antichi, che risalgono all’infanzia, ma questo episodio può valere per quasi tutti gli altri. Mi è capitato la prima volta che ho incontrato l’arcivescovo Desmond Tutu. Eravamo entrambi su un palco, impegnati in una discussione ad Atlanta, in Georgia. In conclusione del dibattito, affermai che alcuni teologi riescono a trascendere le proprie origini per accedere al regno della santità. Fino a quel momento Tutu e io eravamo stati molto vicini, per me l’arcivescovo era un fratello maggiore. Quell’incontro, però, si risolse in una contrapposizione tra di noi. «Sono più che persuaso che lei sia un santo – gli dissi – e che l’umanità intera, in particolare l’Africa, debba essere grata per il passaggio dei santi in mezzo a noi». Ma aggiunsi qualcos’altro e lo feci con piena convinzione: «Per proteggere sé stessa, la società deve chiedere ai santi di esporre sulle loro aureole questo messaggio: Attenzione! I santi nuocciono alla salute!».

Chi ha potuto osservare l’operato di Desmond Tutu durante le sedute della Commissione per la verità e la riconciliazione in Sudafrica (svoltesi con l’obiettivo di trovare una via d’uscita dall’apartheid dopo un periodo di razzismo disumano) avrà capito il contesto al quale mi riferisco. L’esempio sudafricano ha avuto un tale impatto nel mondo intero da far sì che diversi Paesi ne abbiamo ripreso il modello, importandolo direttamente oppure adattandone le caratteristiche salienti alle rispettive aree di conflitto o di disgregazione sociale. Le iniziative di pace sono ormai diventate una preoccupazione comune a tutti i popoli pensanti e c’è chi ne sostiene l’impegno anche indipendentemente dallo storico precedente sudafricano. Oggi il mondo è pieno di Università della Pace e la pace stessa è diventata una disciplina in cui è possibile laurearsi. […] Bene, quando però in Ode laica per Chibok e Leah alludo al “testo” come a un principio da sottoporre a revisione, ho in mente un testo che non è soltanto scritto, ma anche mes- so in pratica, un testo seducente e stratificato nella sua compattezza concettuale, un testo che spinge l’umanità a un livello superiore di sopportazione, abnegazione e arricchimento spirituale, qualcosa che implica addirittura la possibilità che l’oppresso si rialzi e sorga, fino a guarire dalle peggiori ferite interiori. In una parola, questo testo è “perdono” e si basa sul presupposto che tutte le creature bipedi dotate delle facoltà di pensare e di comunicare siano esseri umani, e di conseguenza siano capaci di mettersi in relazione con i dettami di coscienza morale presenti nelle altre persone: siano capaci, insomma, di riflettere e di cambiare. Questa è, grosso modo, la dottrina seguita da Desmond Tutu ed è, senza dubbio, l’atteggiamento al quale richiamano la maggior parte delle religioni. Io stesso sono cresciuto in un ambiente permeato da quel testo. Nella mia vita è sempre stato un tema ricorrente. Per rendere conto di questa costante, e dal momento che il ricordo dell’incontro di Atlanta continua a suscitare domande dentro di me, ecco un altro episodio, che rimanda alle medesime circostanze del precedente, ovvero all’apartheid. Nei miei anni da studente a Leeds, nell’Inghilterra settentrionale, ho avuto modo di conoscere un altro sacerdote, padre Trevor Huddleston, che teneva conferenze dopo essere stato espulso dal Sudafrica. Era stato dichiarato persona non grata e traditore della propria razza per l’appoggio alla causa dei neri. Lo avevano trattato come un prete invadente, la cui presenza costituiva un attentato alla sovranità del Sudafrica.

Anche allora, non riuscivo a condividere le sue convinzioni teologiche e la mia reazione fu più o meno la stessa. Certo, a quell’epoca non disponevo di uno scenario che mi permettesse di mettere in discussione le affermazioni di padre Huddleston. In giro non si sentivano discorsi su verità e riconciliazione e non si parlava con onestà della tratta degli schiavi, alla quale ci si abituava fin dalle scuole elementari come a una specie di mascherata storica. Il sistema dell’apartheid aveva appena iniziato a consolidarsi, ma non assomigliava neppure lontanamente a ciò che le testimonianze raccolte dalla Commissione avrebbe fatto emergere a distanza di decenni. Non c’era il massacro del Ruanda, non c’era Sani Abacha con le sue camere di tortura in Nigeria. Non c’erano Abukabar Shekau o Boko Haram all’orizzonte. Eravamo ancora alla fine degli anni Cinquanta. […] Penso che abbiate capito perché considero gli ideatori e gli esecutori dei processi di verità e riconciliazione come gli autentici eroi del nostro viaggio morale. I loro testi esistenziali conferiscono potenziale umano all’intera umanità e, in questo modo, offrono una possibilità di pentimento e di reinserimento nel consesso umano. Tuttavia, non mi sento a mio agio con l’indiscriminato ottimismo di quel testo, né con il suo accomodante trascendentalismo. Non riesco ad accettarlo. È di una generosità eccessiva, alla quale in tutta franchezza non aspiro. Chi trasforma i bambini in macchine da guerra o in schiavi sessuali, chi viola l’infanzia in qualsiasi modo è andato oltre i limiti dell’umanità, regredendo nelle regioni inesplorate e innominate dei fenomeni primordiali. Si tratta di un carenza di umanità da parte mia? Può essere. Ammetto di non avere ambizioni da superuomo. Non pretendo di avere risposte ideali. Quali che siano le misure delle aureole per santi, sono sicuro che non ce ne sia una giusta per la mia testa. Da qui la mia convinzione che l’umanità vada ridisegnata. Non in base alla razza, alla fede, al genere, al colore, alla forma, alle dimensioni o allo stile di vita, ma più semplicemente in base ai comportamenti.

(traduzione di Alessandro Zaccuri)

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: