mercoledì 15 ottobre 2014
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Un nemico, per tutti. La rivale più odiata, nel calcio tedesco. Questione di soldi, vagonate di quattrini, tanto da poter aggirare norme, calpestare regole. Per di più, a Lipsia, ex Germania Est, dove il Muro caduto ha trascinato giù anche il calcio, che lì viveva di legami forti (con la politica, l’establishment, l’industria statale). Poi arrivò la Red Bull e nulla fu come prima. Prese un club dei bassifondi calcistici, dove il pallone è puro divertimento o poco più, e lo condusse in alto, fin quasi a scorgere le luci abbaglianti della Bundesliga. Un altro balzo, e andrà a braccetto coi grandi del calcio dei campioni del mondo. Il capitalismo applicato al football, là dove la politica aveva a lungo imposto altro. E il rumore dei nemici, sempre più numerosi, ad accompagnare la scalata, finora incontrastata.È la storia dell’Rb Lipsia, che non sta per Red Bull, ma per RasenBallsport, un modo elegante ma non troppo per appiccicare quel marchio senza nominarlo, perché se la legge lo vieta c’è sempre un modo per aggirarla. Storia breve, appena 5 anni. Tanto è passato da quando la Red Bull rilevò l’Ssv Markranstadt, club di quinta divisione, e gli diede il nuovo nome, promettendo l’approdo in Bundesliga nel giro di un decennio. Programma accelerato, se è già in seconda divisione, subito nei quartieri alti, là dove si può sognare la promozione. La Red Bull ci aveva già provato, un paio di anni prima: nel mirino il Sachsen Lipsia, la seconda squadra (dietro la gloriosa Lokomotiv), tentativo fallito per via delle protesta dei tifosi, poco inclini a svendere la loro storia al miglior offerente. Timidamente ostacolato, anche l’acquisto del Marktranstadt, battaglia di retroguardia alfine sconfitta. E via col nuovo che avanza, nel nome del capitalismo più spinto. Decine di milioni di euro investiti, uno stadio nuovo di zecca (manco a dirlo, chiamato Red Bull Arena, roba da oltre 44mila posti a sedere) al posto del vecchio Zentralstadion, magliette griffate prima Adidas e poi Nike (quest’ultimo contratto, firmato quest’anno, fino al 2025), sponsor del calibro di Hugo Boss, Porsche, Volkswagen. Un mare di soldi, a scapito delle regole. E infinite polemiche, dopo la promozione in seconda divisione. Licenza garantita, malgrado le norme infrante: la legge del 50+1, che prevede la maggioranza del pacchetto azionario nelle mani dei tifosi (soci). Di qui, l’odio (sportivo) che lievita, con la campagna «Nein zu Rb» (No all’Rb), promossa da tifosi di 10 squadre di seconda divisione, poi allargatasi a sempre più gruppi, in tutta la Germania.L’Rb Lipsia sente il rumore dei nemici e avanza in campionato. Un altro salto in alto e sarà Bundesliga, in netto anticipo rispetto ai programmi. Il capitalismo al potere, regola non scritta del calcio moderno. Poi, ci sono gli altri, quelli alle regole non scritte vogliono sopravvivere. Anche nello stesso campionato, la Zweite Liga tedesca: il St. Pauli, seconda squadra di Amburgo, che unisce sotto i propri vessilli una comunità di quartiere (St. Pauli, appunto) e si rifà ad altre regole, che ne hanno fatto un mito, un club col cuore a sinistra (in politica), concepito come una struttura democratica, con a capo un presidente eletto dai tifosi, che del club sono anche membri, e con tanto di statuto, con regole ben precise, anzi più che regole una vera e propria attitudine, tipo il divieto di indossare qualunque cosa inneggi o richiami all’estrema destra. Non sono mancati, i tempi duri. Ma ci si è arrangiati con la fantasia, per raccogliere un po’ di quattrini: gruppi rock che si esibivano per beneficenza, le prostitute del quartiere che si autotassavano, i pub che applicavano un sovrapprezzo sulle birre da donare al club. E la storia continua. In campionato, sarà sfida nella sfida, tra Rb Lipsia e St. Pauli: il capitalismo applicato al calcio e il suo opposto. Altri a quella logica si sono ribellati, soprattutto in Inghilterra. A Wimbledon, ad esempio. Che estate, quella estate. Lo definirono «il grande tradimento», e decisero di vendicarsi. Occhio per occhio, dente per dente: addio al vecchio club, sostenuto per anni, nella buona e nella cattiva sorte; tutti insieme con rinnovato entusiasmo per dar vita a uno nuovo di zecca, sempre a Wimbledon, periferia londinese. Idea nata il 28 maggio del 2002, il giorno del «grande tradimento», quando la federazione diede l’ok al progetto di trasferimento del vecchio e glorioso Wimbledon. Il club dalla storia ultracentenaria (fondato nel 1889) era in crisi, i dirigenti convennero che l’unica soluzione era prendere armi e bagagli per trasferirsi a Milton Keynes (si chiama Mk Dons), 70 miglia più a nord. Un autentico affronto per i tifosi, che partirono al contrattacco. E fu allora che la nuova creatura, l’Afc Wimbledon, prese forma. Poi, la lenta scalata, fino alla League One (la quarta divisione). Un nuovo club, nato per mano di tifosi traditi. Si sono sentiti traditi pure alcuni tifosi del Manchester United, traditi dalla famiglia Glazer e dalla loro politica. Fu per questo che 10 anni fa fondarono un altro club, denominato United of Manchester. Fra i due, una sorta di abisso: uno dei club più prestigiosi del mondo e uno semi-professionistico, uno stadio da 75mila posti e uno da 5mila, un giro d’affari da oltre 400 milioni di sterline e uno da poco più di un milione, debiti per 340 milioni e parità di bilancio. E poco male se c’è chi ha stelle e gioca ai più alti livelli. Per qualcuno, il calcio si fa ancora con il cuore anziché i capitali.
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