
Lo storico pianista jazz Franco D'Andrea, per il suo amico Enrico Rava "genio e regolatezza"
Se nell’ambiente del jazz provate a nominare Franco D’Andrea, dal musicista più giovane al massimo dei veterani vi sentirete rispondere: “Il Maestro è il pianoforte”. Encomio collettivo a cui seguirà il 7 luglio la lectio magistralis del Maestro e la “laurea”. Per la prima volta in Italia, quel giorno un conservatorio, l’“Agostino Steffani” di Castelfranco Veneto, conferirà un diploma accademico ad honorem a un jazzista vivente. «È una cosa incredibile, anche perché Franco nasce autodidatta», dice la signora Marta, la moglie del Maestro («siamo sposati dal 1965») che ci accoglie nel loro appartamento milanese vista testoriana sul ponte della Ghisolfa. Umile, sempre sorridente, Franco D’Andrea, 84 anni, dopo una vita schiva e silenziosa francescanamente dedita alla musica ha voglia di raccontarsi. Lo ha fatto con Flavio Caprera nell’esaustiva biografia Un ritratto (Edt) dove però manca un piccolo aneddoto, per niente irrilevante, il minitour estivo con Bobby Solo per andare dalla fidanzata. «Il jazz ai tempi non pagava e siccome volevo raggiungere Marta che era in vacanza in Sardegna accettai di suonare per Bobby Solo, giusto per raggranellare i soldi necessari per il traghetto. Solo per amore ho fatto quelle serate – sorride divertito - e a questo punto se poi l’ho sposata un po’ di merito va anche a Bobby Solo». Il Maestro ha voglia di divertirsi ancora con il jazz e di tornare alle origini del Modern Art Trio, vedi ultimo disco in trio (con il giovane Gabriele Evangelista al contrabbasso e il vecchio sodale Roberto Gatto alla batteria) Something Bluesy and More che si apre con una straordinaria esecuzione di St. Louis Blues di W. C. Handy. «Ho sperimentato un po’ tutte le formazioni: dal duo al trio, con Mauro Ottolini al trombone, Daniele D’Agaro al clarinetto e il mio piano, dal quartetto alla big band di 16 elementi con l’arrangiatore spagnolo Eduardo Rojo Gonzalez, con cui abbiamo inciso il disco Sketches Of The 20th Century, fino alla collaborazione con il bravissimo dj Rocca». Il Maestro ha voglia di ricordare, e ancor più di trasmettere ed insegnare ai giovani, a cominciare dagli allievi della Civica Scuola di Jazz Claudio Abbado di Milano, ai quali svela i segreti delle sue “Aree intervallari”. «È un nucleo di tre note su area pentatonica che ho appreso dal grande John Coltrane che in A Love Supreme suona una terza minore, poi una quarta e virtualmente in mezzo c’è una seconda maggiore».
Queste, riviste e corrette potremmo chiamarle “Aree D’Andrea”, ma il Maestro si schernisce, come se non fosse ancora il tempo della consacrazione. «Ci vorrebbero due o tre vite per andare a fondo alla musica, specie al jazz. C’è sempre qualcosa da migliorare e non c’è nessuno come noi stessi che sappiamo dove possiamo intervenire per superare i nostri limiti». Dubbi e limiti che il Maestro ha sfatato verso i 40 anni. «Nei primi anni ’80 quando ho inciso il mio primo disco di piano solo, Dialogues with super-ego, ho capito che avevo imparato a conoscere il pianoforte nella sua vastità. Prima lo vivevo come un secondo strumento. Venivo da un’infanzia a Merano, la città in cui sono nato, in cui ascoltavo i dischi del mio mito Louis Armstrong e perciò cominciai con la tromba, poi il sax soprano e il clarinetto. A 17 anni ho messo le mani su questo pianoforte - mostra il suo gioiello, un Rudolf Stelzhammer - che avevamo in casa e dopo tanto jazz tradizionale quando rimasi folgorato dall’ascolto dei dischi di Horace Silver iniziai ad elucubrare cose più moderne. Volevo capire meglio l’armonia e il piano rispetto ai fiati mi ha aperto questo orizzonte. Così, da allora sono rimasto appiccicato alla tastiera».
L’orizzonte del pianista che il suo amico Enrico Rava definisce «genio e regolatezza». «È una bella definizione, mi calza bene perché io sono uno che da sempre si regola. Come definirei Rava? Genio e simpatia: Enrico è un musicista grandioso e il suo amore per la letteratura lo ha reso anche un ottimo scrittore e un affascinante narratore sul palco. Io mi limito a raccontare con il mio piano». Un piano il suo, che a differenza della tromba di Rava ha resistito al canto delle sirene del jazz a stelle e strisce. «Avevo talmente suonato e conosciuto qui da noi i jazzisti americani che a un certo punto mi sono sentito musicalmente battezzato. Ho avuto la fortuna di suonare con i più grandi e tra questi vorrei che non fosse mai dimenticato Tony Scott. Un musicista rovinato proprio dal fatto che venne da noi come recita il titolo del docufilm che gli hanno dedicato: Io sono Tony Scott, ovvero come l’Italia fece fuori il più grande clarinettista del jazz. Tony era già anziano e al suo manager Piangerelli diceva: “Non ho fiato per fare un disco in quartetto”, invece poi quel disco l’abbiamo fatto, Homage to Lady Day. Scott era stato amico, musicista e arrangiatore di Billie Holiday. Il suo passo lento può capirlo solo un gigante come Don Byron che nel docufilm dice: “Il clarinetto non è solo velocità ma espressione”. E infatti Tony possedeva quell’espressione che io chiamo tecnica, e quella ce l’hai anche se non vai a cento all’ora». Un incontro vertiginoso fu quello con il genio argentino Gato Barbieri. «Io ed Enrico Rava consideriamo Gato il nostro “nume tutelare”, incontrarlo è stata la nostra università. Il mio primo incontro con lui fu a Roma, a casa di Lelio Luttazzi, dove vedo il seggiolino vacante del pianoforte e mi ci fiondo a sedere. A quel punto appare Gato e mi chiede di suonare un blues in do minore: lo accompagno, poi lui comincia a improvvisare e vola in un altro mondo a me sconosciuto. Provo ad andargli dietro con un assolo, ma non era un granché. Gato però da gran signore quale era alla fine si avvicina e mi dice: “Complimenti”. Io pensai, di cosa? Quel suo sassofono era troppo avanti, aveva già sgamato il “nuovo” John Coltrane con McCoy Tyner e io lo comprendo solo dopo aver consumato i dischi del loro quartetto. Sei mesi dopo quella serata, con Gato ci ritroviamo al Purgatorio, il locale sotto al ristorante Meo Patacca e suoniamo ancora insieme, poi abbiamo inciso dischi e io gli ho reso omaggio con Solo 4 Gato. Grazie a Barbieri ho anche partecipato all’unica colonna sonora per film, il mio piano è quello del disco di Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci». Tra tanto jazz, unica folgorazione pop è stata quella per Lucio Dalla. «Con Lucio e Ares Tavolazzi abbiamo inciso Misterioso di Thelonius Monk, che è diventato uno dei brani del disco Dalla-Morandi: un inserto fantastico perché Lucio lo suonò in una maniera particolare, 4 battute di clarinetto e lui che risponde con la voce. Dalla sapeva fare lo scat da vero jazzista».
Niente pop, ma nella discografia del Maestro ci sono tracce indelebili di rock progressive per via della sua incredibile esperienza con il Perigeo. «Giovanni Tommaso che aveva avuto l’idea di costituire il gruppo mi disse di pensare a qualcosa che è in aria ma vicino alla terra e così ho tirato fuori quel nome, Perigeo. Le idee erano tante e ci abbiamo messo un po’ a quadrare. Io cercavo di mantenere un suono jazzistico e perorai l’ingresso del sax di Claudio Fasoli e la batteria di Bruno Biriaco. Giovanni voleva un chitarrista rock e alla fine scovò il 17enne Tony Sidney, figlio di militare americano che suonava in un club fiorentino molto rock, lo Space Electronic. Tony era un personaggio stranissimo, si metteva davanti al Marshall e diceva: “Io sono contento solo quando alla gente sanguinano le orecchie”- sorride - . Dopo i primi due dischi, Azimut (1972) e Abbiamo tutti un blues da piangere (1973) ci chiedevamo: e adesso dove andremo a parare? Poi al terzo con Genealogia è venuta fuori la vera cifra del Perigeo. Molti ci hanno seguiti e imitati. Abbiamo girato il mondo, dei tour on the road estenuanti che duravano mesi. Ci avevano chiamati a fare da spalla al tour europeo dei Weather Report ma dopo un po’ loro e soprattutto il pubblico che apprezzava molto di più il Perigeo, capirono che tanto spalla non eravamo - sorride divertito -. Facevamo una musica a colori, piena di suggestioni e di generi che si erano fusi e oggi scopro che siamo stati e siamo ancora un punto di riferimento per molti appassionati, anche giovani. Un allievo della Civica, un chitarrista, ha tutti e 5 i dischi del Perigeo e ogni volta che mi vede mi implora: “Maestro la prego, mi faccia i primi due accordi di Via Beato Angelico”. Io lo accontento, glie li faccio, ma poi me ne torno al mio amato jazz».