venerdì 21 gennaio 2022
Con oltre 120 opere è la mostra più ampia dedicata allo scultore che ha scelto la via del classico. Ma a renderlo attuale è l'indagine delle "anatomie della vita interiore", in particolare nel sacro
Francesco Messina, “Giobbe”, 1934. Collezione Orler

Francesco Messina, “Giobbe”, 1934. Collezione Orler

COMMENTA E CONDIVIDI

Con centoventi opere quella in corso a Vercelli fino al 27 febbraio è la più vasta retrospettiva dedicata a Francesco Messina. Curata da Marta Concina, Daniele De Luca e Sandro Parmiggiani, realizzata con il contributo di Studio Copernico di Nicola Loi (dal quale provengono la maggior parte delle opere) e Fondazione Messina, la mostra si articola in tre sedi, ossia Arca, la pinacoteca del Palazzo Arcivescovile, dove è collocata la produzione sacra, e la chiesa sconsacrata di San Vittore – una installazione su scala urbana poiché le due grandi sculture, il gruppo di Adamo ed Eva sul sagrato e la ballerina di Summertime all’interno, sono visibili per tutta la giornata e buona parte della notte direttamente dal corso.

Una mostra di queste dimensioni obbliga a porsi la domanda sua quale sia il posto di Messina nel Novecento. Lo scultore ha avuto una carriera lunghissima, dagli anni Venti fino alla morte nel 1995, ma dopo la produzione degli anni ’30-’40 – che la mostra conferma come il vero apice qualitativo per freschezza e intensità – nel dopoguerra, nonostante una continuità di apprezzamento in particolare da parte della stirpe ormai interrotta dei poeticritici, il suo lavoro, complice anche una certa routine, non si è più trovato in sintonia con un clima zavorrato da ideologie estetiche e politiche.

A differenza dei suoi coetanei Marini e Manzù (mai usciti dai radar della critica) Messina ha scelto di percorrere la strada del classico. Come scrive Parmiggiani nel catalogo (Polistampa), è «la tradizione del moderno», ossia il sentire «la tradizione classica, rinascimentale e moderna» come «la lingua e la visione che lui aveva riconosciuto come la propria patria e il proprio destino, ai quali, dopo esservi approdato, sentiva di dovere ancorare il cammino artistico di una vita». La mostra consente di verificare puntualmente questo legame ma anche di metterlo a fuoco. Il suo collocarsi in una tradizione non è affidarsi a un repertorio dotato di una auctoritas sempre più traballante. Il rifarsi del giovane Messina a un patrimonio ben selezionato, che fosse l’arcaico italico, la statuaria ellenistica, la ritrattistica del Quattrocento, la lezione di Donatello, appare più il tentativo di rivaleggiare con una storia di giganti.

Ma il cuore forse non è qui. Lo scultore, scrive ancora Parmiggiani, «non si è limitato a restituirci la buccia di qualcosa che voleva rappresentare nella terza dimensione (…) ma si è costantemente posto all’ascolto dei brividi interiori di coloro di cui andava fissando i tratti nelle proprie sculture». Questo appare particolarmente vero per una parte della sua opera, certamente per la migliore. È l’energia nervosa che vibra negli adolescenti o l’algido distacco della moglie Bianca. Ed è ciò che fa di lui un ritrattista superbo, forse il migliore che abbia avuto l’arte italiana nel Novecento. Ma quando si accosta a una produzione più di genere (le ballerine, i cavalli…), proprio quella adesione alla verità interna viene meno e con lei la forza della figura.

La “anatomia della vita interiore”, per usare ancora una bella espressione di Parmiggiani, è invece ben presente nell’opera sacra, assai poco stereotipata sotto il profilo iconografico. Nelle figure dei santi Messina evita accuratamente i cliché (nessun sguardo vacuo al cielo) per fare sprofondare le figure, mente e corpo, al nucleo dell’esperienza. Il tema sacro è forse quello dove Messina ha occasione di esplorare il registro drammatico (sulla lezione di Donatello), altrimenti in lui poco consueto (e invece centrale in Marini e Manzù). Si prendano ad esempio i diversi bozzetti per Adamo ed Eva, dove anche la materia si fa inquieta, o il monumento romano a santa Caterina, con l’avanzare contratto ma inesorabile della mistica; o infine il Giobbe, il capolavoro di tutta la sua carriera (insieme al monumento a Pio XII), opera raramente esposta: dove la figura obliqua e pericolante dell’uomo anziano trova la sua ragione statica nella solidità interiore. Questo approccio psicologico al sacro, che anima anche le opere minori, è l’apporto più importante di Messina al problema dell’arte religiosa. Sotto la patina della tradizione Messina fa pulsare la carne. Se l’appartenere alla modernità non è tanto una questione linguistica ma di sentire, è questo il lasciapassare che consente a Messina di essere non più un classico nel Novecento ma un classico del Novecento.

Vercelli, Sedi varie
Francesco Messina
Fino al 27 febbraio

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: