giovedì 30 ottobre 2014
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È l’accettarne tanto la dimensione di dolore e fatica quanto l’occasione di meraviglia a rendere la vita un dono prezioso che ogni giorno si rinnova. Nel suo mistero, se accettato, c’è la continua quotidiana dimostrazione di cosa significhi conversione, convertirsi. Ho incontrato Benedetto XVI, Papa emerito, mai l’avrei immaginato o considerato possibile fino a quando mi è stato chiesto, in dimensione realistica anche se teorica: - vorresti incontrarlo? -. Un concatenarsi inarrestabile di pensieri e ricordi. Breve riepilogo. Era cardinale, prefetto della Congregazione della Fede, io vivevo secondo modi e ritmi che più passava il tempo più si rivelavano angusti. Senza soddisfazione. Potevo ricondurre tutte le mie scelte di vita all’impatto adolescenziale con il mondo moderno. «I can’t get no satisfaction» cantavano i Rolling Stones ed io ne fui rapito ma ero cresciuto nella tradizione cattolica, avevo imparato e sperimentato molte cose. Una primogenitura, una dote, che alla prova dei fatti si sarebbero dimostrate inalienabili. Nei miei giorni di uomo Ratzinger era l’esemplificazione ostentata di tutte le colpe della Chiesa Cattolica e della Reazione alle magnifiche sorti e progressive, summa di ogni oscurantismo ideologico, fino ad ombreggiare simpatie naziste. «Il troppo stroppia» diceva mia nonna e dopo aver letto un ennesimo articolo che lo denigrava decisi di entrare in libreria: - ma questo Ratzinger ha scritto qualcosa? - uscii con alcuni suoi testi e cominciai leggendoli un’altra tappa del mio cammino sulla terra. Avevo trovato un maestro. Ritagliai una sua fotografia, l’incorniciai posizionandola bene in vista e divenne una presenza quotidiana, familiare. Ne parlavo con gli amici, litigavo per lo più; piansi di gioia e commozione quando venne eletto al soglio pontificio. L’ho difeso sempre e mi ha fatto ridere scoprire che c’è stato un periodo in cui una clausola, a mia insaputa, era stata aggiunta ai miei contratti: è proibito parlare del Papa in presenza dell’artista.
A settembre è arrivata una lettera con lo stemma vaticano: Sua Santità il Papa emerito acconsente ad un breve incontro. Mia nonna sarebbe rimasta annichilita dalla commozione cercando rifugio nel rosario, mio zio Clemente, il miscredente di famiglia, avrebbe detto - bimbo, sei del gatto - una complessità gergale che fonde dolcezza e pericolo, timore e delicatezza in patina domestica. Ho anche pensato: entro nello studio, mi inginocchio, bacio l’anello e il Santo Padre mi da due ceffoni intimandomi - non si vergogna, Ferretti? -. Io che so perfettamente di cosa vergognarmi ne sarei sollevato e mi terrei cari i due ceffoni che non stonerebbero nella benedizione della sua presenza. Quello che ho fatto è stato confessarmi, comunicarmi, prepararmi all’incontro con mente libera e cuore puro. Non edulcorare, non ideologizzare, non psicologizzare la realtà dei propri giorni; la confessione inizia con l’esame di coscienza: pensieri, parole, opere, omissioni.La consapevolezza che molti accadimenti possibili in ordini molto diversi potevano annullare l’incontro, e una naturale ritrosia, mi hanno consentito di non dirlo che a poche persone, meno di una mano e solo due giorni prima. Poche ore dopo ero già gravato dal racconto di un dolore così lancinante da lasciar spazio solo a parole di preghiera, richiesta di un aiuto che non si sa, non si può formulare in altro modo. Me ne sono fatto carico, l’avrei presentato all’intercessione del Santo Padre. Una preghiera per Etti, sua madre, suo padre, le persone che l’hanno cara e vivono nella disperazione. Il gran giorno è arrivato, sono andato a Messa da padre Maurizio e da Chiesa Nuova a Piazza San Pietro continuavo a pensare che molti, forse tutti, avevano più motivi di me per essere ricevuti e non tanto per meriti o valori di cui non posso sapere ma perché io so delle mie colpe, del mio misero valere. Anche la guardia svizzera che mi ha bloccato sulla porta di Sant’Anna la pensava come me e prima che potessi proferir parola mi ha intimato: - di qua non si passa -. A coloro che frequentano il Vaticano non è concesso rendersi conto di cosa possa significare per un cattolico che arriva da lontano varcare quella soglia.
È luogo di potere non riducibile a dimensione politico sociale, esplicita una funzione verticale tra terra e cielo. Uno spazio di concentrazione abissale. Dominus Deus Sabaoth, anche. Un breve viaggio in macchina salendo il colle. Il Vaticano è fortezza, monastero, prigione, ospedale, governo e burocrazia, nessuna dimensione storico sociale gli è estranea ma tutte insieme non lo esauriscono. Arte a profusione e giardini ben curati. Un muro, un cancello, un cortile di ghiaia, un prato, una casa che fa tutt’uno con una piccola chiesa; all’interno una dimora come tante sulle colline d’Italia. La porta si apre e nel piccolo salotto anche il Papa sta entrando da un’altra porta, mi inginocchio, bacio l’anello e la sua mano, che alzandosi leggera mi sfiora il braccio invitandomi a seguirlo e ci accomodiamo su due poltrone, di fronte, vicini. Una dimensione familiare. - Lei viene da lontano, è stato un lungo viaggio che l’ha portata qui. Mi racconti -.- Santo Padre il mio è un mondo di umane miserie e miserevoli esperienze, raramente concede tempo e spazio al manifestarsi della grazia ma non è impermeabile alla divina misericordia - le parole escono leggere, a volte timorose, ma una benevolenza palpabile le sostiene. I suoi occhi vibrano di una luce che solo una vita di preghiera al cospetto dell’Altissimo può produrre come riverbero. Occhi di grazia che contemplano, consapevoli, l’immane dolore, la disgrazia senza rabbuiarsi solo aumentando la profondità dello sguardo, volgendolo all’interno. Esile, fragile, affaticato nel muoversi, contratto nel sedersi. Sono gli occhi di cristallina purezza a determinarne autorità e autorevolezza. Bagliori di lucida intelligenza nutrita di sapienza non lascerebbero scampo imponendo il silenzio ma un’attitudine dolcissima dell’essere, nei gesti ritenuti, nell’ascolto, permettono un parlar franco e sereno. Ho rimesso nelle sue mani la mia vita e tutte le persone che ne fanno parte: i concerti, la montagna, anche i cavalli; lo sconforto, la stanchezza, la gioia, la riconoscenza- lei è molto giovane - sorriso- Santo Padre sono vecchio da ogni punto di vista, non fosse per la Fornero sarei in pensione - sorriso- No, no lei è molto giovane, il suo viaggio non è ancora finito, ha molte cose da fare -.- Santo Padre mi benedica e con me benedica i peggiori, quelli che non hanno possibilità alcuna se non nella misericordia, nella compassione, nell’amore di Dio -.Di nuovo in Piazza San Pietro, beatificato senza merito ma per contiguità, osservo quantità e qualità della folla di cui sono parte. Famiglie, comitive, coppie, singoli, gruppi e gruppetti, laici e consacrati. Il popolo cattolico, mescolanza di tutti i popoli, tutte le condizioni e le contraddizioni dell’umanità sulla tomba di Pietro, dove vive, celebra, governa il Papa, suo successore. La Tradizione vivente, irrisolta e irrisolvibile fino alla fine dei tempi. Sono giornate speciali, è in atto il Sinodo sulla famiglia: come metter mano ad una bomba ad orologeria. La famiglia con annessi e connessi è la centralità conclamata di ogni sgretolamento del contemporaneo, il punto cruciale della condizione umana così come la conosciamo: pubblico e privato, intimità e socialità, sessualità e procreazione, figli e genitori, matrimonio e patrimonio. Han voglia teologi e politici dell’immutabile cerimoniale a lucidare specchi in cui rimirarsi.
Molte cose sono cambiate, molte cose sono in repentino mutamento, certo non cambia l’anima dell’uomo, non muta la Buona Novella di cui la Tradizione è testimonianza viva e vivificante ma tutto il resto è soggetto a contingenza. Abbiamo un Santo Padre regnante ed un Santo Padre emerito. Il primo è un dono, imprevisto e imprevedibile, del secondo. Benedetto con gesto profetico, umiltà e potenza al massimo livello, ha mutato il paradigma papale per ciò che era in suo potere. Il gesto di Benedetto ha mutato anche il paradigma europeo certificandone la fine di spazio centrale nella storia ma questo è un altro discorso. Il Santo Padre è Francesco e già cumula rimostranze intellettuali, teologico morali, viscerali antipatie. Piace troppo, si dice alla fiera della malevolenza. C’è da rimanere sconcertati nel leggere gli attacchi dei tradizionalisti al Santo Padre così come al tempo di Benedetto si leggevano gli attacchi dei progressisti innovatori. Basta rileggere i giornali dopo il discorso di Ratisbona, accorato e lucido appello a quella che fu la civiltà della cristianità, o tornare alla vicenda della Sapienza, alla glaciale solitudine in cui è stato relegato, per trovare lo stesso livore, la stessa arroganza, da campi opposti che la miseria umana non concede sconti d’appartenenza politico teologica. Il Santo Padre Francesco è un dono di Dio agli uomini di questi giorni nostri, va ascoltato con mente limpida e cuore puro, almeno per quel che si può e già basterebbe. Se no si è: protestanti, evangelici, riformati, controriformati, sedevacantisti, ortodossi no che è un altro discorso, magari moralmente ineccepibili e persino intellettualmente molto dotati, ma non cattolici. Che ci sia o no salvezza fuori dalla Chiesa è questione rinviabile al giudizio di Dio ma che ci sia salvezza nella Chiesa contro il Papa è paradosso clericale. "Quanta tristezza, quanta malinconia" per dirla con una canzonetta della mia infanzia. Quanta meraviglia anche nell’attesa di "tornar per sempre a casa mia". Molte le cose da fare nel frattempo.
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