Lo scrittore spagnolo Fernando Aramburu - Ivan Giménez / Tusquets Editores
«Ho vissuto abbastanza per sapere che nulla dell’essere umano è stabile. Ho trascorso l’infanzia in una dittatura. Non auguro a nessuno un’esperienza simile. Per questo mi preoccupa che non abbiamo maggiore cura delle nostre democrazie». Il nazionalismo che sublima la patria Fernando Aramburu l’ha scandagliato nella grande narrazione della società basca lacerata dal conflitto con Eta, che ha affascinato milioni di lettori e gli ha procurato innumerevoli premi, fra i quali lo Strega europeo. Ma ha in mente la tracotanza del Cremlino e «l’enorme tragedia collettiva» provocata in Ucraina dall’invasione russa, che dopo 50 anni ha riportato il conflitto in Europa, quando si dice «turbato dal ritorno dell’oscurantismo». Lo scrittore basco, che sabato riceverà il premio alla carriera dall’Orbetello Book Prize, ha presentato di recente al Salone di Torino Figli della favola, edito da Guanda nella traduzione di Bruno Arpaia, in cui torna al mondo di Patria. Questa volta però in toni di umorismo caustico. I protagonisti sono due giovani, Asier e Joseba, imbevuti di ideologia nazionalista, “arruolati” dalla banda separatista e spediti nel sud della Francia, in una fattoria di allevatori di galline, in attesa di istruzioni. Che non arriveranno. I due ignorano che intanto Eta ha dichiarato la fine della lotta armata. La clandestinità in cui vivono è pertanto frutto della loro immaginazione, come l’adesione alla causa terrorista. Quando infine ne saranno coscienti, decidono di fondare una propria organizzazione.
Aramburu, qual è l’origine di Figli della favola?
«Nel 2011, quando Eta annunciò la rinuncia alle armi, alcuni di noi si chiesero se non ci fossero dissidenti interni disposti a continuare a perpetrare attentati per conto proprio. Così ho concepito un romanzo che potesse, se non rispondere a questa domanda, almeno occuparsene da un punto di vista letterario».
Prima Patria, poi i racconti, le favole per bambinie I rondoni, la resa di un uomo che fatica a adattarsi ai tempi, e ora una novella in cui si serve dell’ironia per narrare il terrorismo. Ama cambiare registro?
«Non è che mi piaccia, mi induce a farlo la mia concezione della letteratura, dalla quale non escludo il movente artistico. In ogni progetto ho bisogno di affrontare nuove sfide. Diffido molto del lavoro che non comporta difficoltà. Aspiro a essere autore di un’opera varia. Cerco, sperimento, spesso senza risultati positivi. In qualche modo prendo esempio dagli autori di musica classica, che con la stessa perseveranza si applicavano alla composizione di un’opera, una sinfonia o una sonata».
Questa volta utilizza uno stile veloce, frasi brevi, un ritmo serrato. Ha trovato ostacoli nella ricerca di un linguaggio non convenzionale?
«Molti scogli, ma è stato piacevole cercare il modo di superarli. Ho scelto una concisione estrema perché ho immaginato che fosse la forma adeguata alla storia che mi ero riproposto di raccontare. Una modulazione linguistica che, anche se sembra propria del linguaggio parlato, non lo è. E se questo può dare una sensazione di semplicità, mi lusinga. Chi legge un libro non dovrebbe mai percepire la fatica dell’autore».
La puzza di escrementi di gallina dei protagonisti, che quando si “militarizzano” fanno pratica di tiro con le scope o sequestrano polli: più che membri della banda armata, Asier e Joseba somigliano a Stanlio e Ollio. Sono immaginari o ispirati a personale reali?
«Capisco che le loro azioni possano risultare buffe al lettore. Per me non lo sono. Partiamo dalla premessa erronea di credere che la comicità provenga in esclusiva dallo scrittore, e che non si dava nel carattere e nelle attività dei terroristi. Non c’è bisogno di documentarsi troppo per constatare, fra i militanti di Eta, una grande quantità di episodi pasticcioni e grotteschi, dei quali effettivamente non era possibile ridere per la quantità di vittime che questa gente provocava. Ma sbagliamo se pensiamo che essere crudeli e assassinare sia incompatibile con l’essere ridicoli».
«I miei geni baschi non hanno dubbi. Che arriva un batterio? Molto bene, vieni qui, bello. I miei geni gli danno una buona lezione e addio al problema». È la caricatura della gagliardia basca? Come si inserisce nel proposito di raccontare la sua terra, San Sebastian?
«Il progetto in cui rientra Figli della favola prevede una serie di romanzi e racconti riuniti nel titolo generale di Gentes vascas. La mia memoria personale, dall’infanzia alla gioventù avanzata, prima di stabilirmi in Germania, è piena di storie sui miei compaesani. Non ho intenzione di scrivere sempre delle stesse cose. Ma a volte mi invade il desiderio di occuparmi della gente che ho conosciuto a fondo e con la quale ho vissuto i miei primi venticinque anni».
Il commando Tarn fondato dai due protagonisti in fondo è la storia di un’amicizia. E il dramma di una generazione. È anche la rivendicazione dell’età dell’innocenza?
«Non ne sono sicuro, anche se forse c’è qualcosa del genere. La ragione della mia incertezza è che non scrivo mai in funzione di tesi o idee. Lascio ai lettori il compito di interpretarmi. Posso invece affermare senza dubbio che mi ispira poca fiducia l’innocenza di uomini armati».
Se in Patria strappa la cortina di omertà che rese la società complice del terrorismo e rivittimizzò i bersagli di Eta, qui le vittime sono assenti. Perché?
«Prima di imbarcarmi, ho esposto la mia idea a una vittima del terrorismo per la quale nutro grande affetto e ammirazione. Le dissi che le vittime non sarebbero apparse nel romanzo, perché mi riproponevo di presentare due aspiranti terroristi nel loro aspetto più grottesco e pertanto l’effetto poteva essere comico. Questa persona mi ha dato la sua approvazione. Non voglio in nessun modo aumentare il dolore di chi ha già sofferto molto».
A quasi dodici anni dalla fine di Eta, come sono cambiati gli spagnoli?
«L’incendio si è spento. Ora solo resta il bosco bruciato».
Che Paese Basco trova quando torna da Hannover, dove vive da trent’anni?
«Trovo una società amnesica, con un alto grado di benessere, che ha fatto una serie di concessioni politiche e morali in cambio di tranquillità».
In Spagna a fine anno si svolgeranno le elezioni generali. Come valuta la frammentazione politica e le diverse Spagne ideologizzate?
«La politica come gestione sociale e come teoria mi annoia. Mi interessa solo in due aspetti: come votante - non mi astengo mai - e come scenario del comportamento umano. È una fonte di peripezie umane, molte delle quali ignobili e meschine. Per questo resisto a ignorarla, poiché mi ispira. Evito però di avere un’opinione su tutto, sapendo che noi cittadini ci avvediamo di un 10% di quanto avviene nell’ombra, dove si prendono le decisioni cruciali».